Ceschino Montanari, un rinascimentale contemporaneo allenato alla bellezza
La libertà di raccontarsi e di farci capire qualcosa di più di noi se la concedeva solo a condizione di affidarsi a una improvvisazione orale destinata a non lasciar traccia. “Un suono che la memoria potrà conservare” è l’eccezione alla regola
Se la vita è l’arte dell’incontro, come diceva il poeta, quell’arte lo psicoterapeuta Francesco Montanari, Ceschino per gli amici, l’ha praticata da maestro, come sa chi ha avuto la fortuna di conoscerlo. Come il suo maestro Ernst Bernhard, nel corso di una lunga vita (è morto novantaduenne, lo scorso gennaio), Montanari è stato tuttavia uno scrittore riluttante. Il motivo, secondo Benedetta Craveri, è che “la libertà di raccontarsi e di farci capire qualcosa di più di noi stessi e degli altri Ceschino se la concede solo a condizione di affidarsi a una improvvisazione orale destinata a non lasciar traccia. La parola riveste per lui un valore cruciale, che non le consente di essere impunemente fissata sulla pagina”.
Le rare e preziose eccezioni a questa regola sono ora diventate un’antologia di saggi, di conversazioni, di riflessioni, di ricordi. Si intitola Un suono che la memoria potrà conservare (All’Insegna del Mare, 263 pp., 22 euro, in vendita online), l’ha curata lo storico Roberto Mancini ed è illustrata dalle riproduzioni dei Set psichici del compositore Franco Piersanti, piccoli manufatti di latta, cartapesta e legno nei quali Montanari vedeva “l’oceano in una conchiglia”.
Il libro si apre con “Alluminio”, racconto pubblicato nel 1980 sulla rivista Prospettive Settanta per merito di Elena Croce, che decise di “obbligare” l’amico Ceschino a scrivere, vincendone, sia pure per poco, la reticenza. Montanari descrive un sogno e insieme disegna il percorso che lo porta dal disordine tormentoso dei pensieri a un ordine che non è mai dato una volta per tutte, ma che continua a rimettersi in discussione, ad accogliere e a ricomporre il senso delle cose e dei loro legami: “A me piace pensare che sia il sogno a interpretare me”, conclude.
Ad Antonio Gnoli, che lo intervistò nel 2019, Ceschino diceva che nel suo lavoro “occorrono qualità speciali: se non percepisci il dolore altrui meglio lasciar perdere”, perché “se suoni un violino devi comprendere il suono, oppure è meglio abbandonare. Devi saper distinguere tra sofferenza vera e quella raccontata”. L’orecchio di Ceschino, coltivato nell’amore per la musica e affinato nell’ascolto degli amici, dei pazienti, della realtà, è stato il suo vero ferro del mestiere, quello che gli ha permesso di riconoscere ogni suono falso e di difendersi da enfasi inopportune e tic ideologici. Il folgorante saggio sul carteggio tra Freud e Jung, la riflessione controcorrente sulla “rivoluzione psichiatrica” degli anni Settanta, la confutazione rispettosa e ferma di un giudizio di Bettelheim sui giovani di quegli anni, la stroncatura dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, valgono da soli la lettura di “Un suono che la memoria potrà conservare”. Perfino nelle relazioni scritte per convegni scientifici, come le “Considerazioni sul tempo in neuropsichiatria” o “Il problema della personalità ossessiva nei confronti della vita matrimoniale”, si riesce a cogliere l’attitudine “umanistica” di Ceschino Montanari. In fondo questo è stato, un rinascimentale contemporaneo, con l’amore per l’arte, la passione di ebanista e di curatore di giardini e di amicizie, lo sguardo che fin dall’adolescenza, nelle visite romane a uno zio dalla natìa Lugo di Romagna, si andava allenando alla bellezza e alle sue metamorfosi, nell’ambiente di pittori, musicisti e letterati in cui avrebbe incontrato Resy, sua moglie e complice per la vita. Dopo la morte di lei, nel 2007, ogni estate Ceschino le ha dedicato un concerto nella loro casa di Talamone, e anche quest’anno, per volontà dei tre figli e come sempre a cura di Franco Piersanti, l’appuntamento si rinnova per gli amici. Senza Ceschino ma ancora con lui, che ricordando in un frammento messo a chiusura del libro la piccola locomotiva giocattolo avuta in dono dal padre a cinque anni, sorride alla sua “vita fortunata, ricca di lampi di sole a illuminare i tanti buchi neri che per natura costellano i percorsi dell’esistenza”.
Universalismo individualistico