La teoria della ferita
Così si trasfigura il trauma delle trincee nella grande letteratura del '90
Gadda, Céline, Tolkien: affinità e divergenze nel racconto della Grande Guerra, alla ricerca di una nota da salvare nel caos. Un punto di non ritorno dal quale escono trasformati per sempre
Teoria della ferita. È quella che venne impiegata da Edmund Wilson per leggere l’opera di Hemingway come una serie di cerchi irradiati dalla bomba che lo colpì durante la Prima guerra mondiale. L’uscita a pochi mesi di distanza della nuova edizione del Giornale di guerra e di prigionia di Gadda, del finalmente ritrovato Guerra dai manoscritti di Céline (entrambi per Adelphi) e, più addietro, la nuova veste critica de I racconti incompiuti di Tolkien (Bompiani) consente di rigirarsi tra le mani la medesima scheggia, conficcatasi nel cuore di tre giovani soldati e futuri scrittori, dislocati in punti diversi dello stesso conflitto, per i quali il salto quantico d’orrore vissuto da un’intera generazione confluirà poi in opere decisive per il ’900 letterario, più o meno ravvicinate agli eventi stessi, con esiti differenti eppure convergenti più di quanto si potrebbe pensare. Parrebbe l’incipit banale di una barzelletta – c’erano un italiano, un francese e un inglese… – e invece si tratta di un punto di non ritorno, da cui lo sguardo del padre del noir definitivo, del cane rabbioso di “Viaggio al termine della notte”, del creatore della Terra di Mezzo uscirà trasformato per sempre.
“A colui che ha instituito ed accresciuto nel nostro spirito la coscienza della vita nazionale, noi chiediamo conforto di consentimento e di opera in un’ora angosciosa della vita, perché non venga disconosciuto un nostro antico diritto”. È con un sogghigno amaro che si legge la missiva con cui un Gadda universitario chiedeva a D’Annunzio di aiutarlo per farsi accettare al fronte. Quello che poi riporterà nel suo giornale sarà tutt’altro che eroico e fulgido. “Merde: sono sparse, di tutte le dimensioni, forme, colori, d’ogni qualità e consistenza, nei dintorni immediati degli accampamenti: gialle, nere, cenere, scure, bronzine: liquide, solide”. Le centinaia di pagine hanno la forza ipnotica di una marcia ora serrata, ora lasca, comprendono elenchi, bozzetti di luoghi e commilitoni. Il tutto già percorso dalla prosa che avrebbe raccontato il gorgo cognitivo ed espressivo dell’uomo contemporaneo: “Con avidità di belva, con voluttà serpentesca, le mie labbra, il mio palato, il gozzo e lo stomaco raccolsero dalla scodella la pappa di rape”. La violenza della strage mondiale è più della somma dei singoli eventi, è un clima che infetta tutto, che forse già si annidava sotto tutto: “Il dolore mi abbrutisce e mi svilisce e mi vuota l’anima: esteriormente non so manifestarlo. Lo provo anche stando con altri, ma il discorso va avanti: se c’è da sorridere, sorrido… non posso scriverne, ma è troppo; troppo il dolore, l’orrore della notte e la solitudine dell’anima”. Pare tendere la staffetta a Céline che anni dopo prende le mosse proprio da “tutto il rumore che hanno voluto fare… cioè insomma l’orrore” che gli martella nelle tempie nei campi dilaniati. Il caos esterno della guerra ha un corrispettivo interiore, il “rumore di tempesta che mi portavo appresso”. C’è già tutto Céline, in quel ringhio a contrasto con l’universo intero, dal cielo colmo di nubi pazze ai torrenti insozzati dalle scariche di diarrea. “Del mio supplizio mi servivo per sbroccare”.
L’opzione di Tolkien sarà diversa ancora. Ogni scrittore deve anzitutto scovare la propria regione, e sarà proprio il trauma delle trincee che darà al vizio segreto del giovane filologo per le sue immaginarie “lingue delle fate” un centro drammatico da cui si svilupperà gran parte della sua mitologia, a partire dalla caduta della città elfica di Gondolin, sulle cui mura si abbattono i carri armati e le mitragliatrici della Somme: “Poi, un giorno, Melko radunò tutti i suoi fabbri e stregoni più versati, che dal ferro e dal fuoco fabbricarono una schiera di mostri come se ne videro solo a quel tempo, e come mai se ne vedranno finché non giunga la Grande Fine. Alcuni erano interamente di ferro, con giunti di tale maestria che potevano scivolare come lenti fiumi di metallo o avvolgersi in spire intorno e sopra ogni ostacolo si parasse loro dinanzi; altri, di bronzo e rame, erano dotati di cuori e spiriti di fuoco fiammeggiante, e questi annientavano qualsiasi cosa avessero di fronte con i loro sbuffi spaventosi”. Ma la chiave ultima di tutti e tre gli sguardi si annida forse nelle parole stesse di Céline, lo struggimento per cogliere, esprimere e forse così salvare, nel caos scatenato sul mondo intero e che inghiotte colpe e scelte singole, la nota per ciò sarebbe dovuto essere, e tutta la gamma di opzioni per tentarci, dai guazzabugli manzoniani alla scatologia bestemmiatrice alla austera limpidezza dell’epica: “Dove mi trovavo avrei voluto, se proprio mi toccava crepare, una musica più mia, più viva per affrontare quel passo. Non si cambia. Tirare le cuoia ancora ancora si può fare, a esaurire la poesia la poesia è tutto quello che viene prima, tutti gli scannamenti, le tribolazioni, i torturamenti che precedono lo stranguglione ultimo. Allora tocca essere molto brevi o molto ricchi”.