oltre l'immediato
Un tema di maturità per generazioni poco avvezze ad aspettare
Quest'anno quasi la metà dei maturandi ha scelto la traccia sull’elogio dell’attesa. Ma questi ragazzi (e oramai noi, con loro) vivono nel tempo della condivisione di tutto con tutti, in un click. Mentre gli epistolari della letteratura raccontano una pazienza perduta
"Qui dove ti scrivo, già da molti giorni il tempo è d’Estate, entro un cielo d’oro e di veloci bufere”. Pare che quest’anno per il tema d’italiano, che apre la sessione di esami di Stato, quasi la metà dei maturandi abbia scelto la traccia sull’elogio dell’attesa, ispirata a un brano di Marco Belpoliti. “La colpa che mi dà più rimorso nella vita è di avere sbagliato ogni dialogo…, e tuttavia sono così contento ora di scriverti, di chiederti o di risponderti qualcosa”. L’etimologia di attendere è tendere verso. Volgere l’animo a qualcosa; quella di aspettare è guardare attentamente, guardare verso. Nella lingua spagnola c’è della poesia nel verbo aspettare: esperar (io ti aspetto, yo te espero; fa subito verso, fa metafora universale). “Aspetta: urlerò il mio nome contro tutti gli specchi, per provocarli. Occorre che sia così fatto”.
La letteratura è piena di attesa, di “ogni esperienza incarnata nel suo confine momentaneo e necessario”. L’attesa è uno dei nuclei tematici di tanta poesia e di tanta narrativa, “vivo in casa mia… tuttavia, sempre alla giornata… imparo l’accidioso tepore della solitudine, e me lo confesso. Tu riscrivimi presto, se puoi”.
Da Emily Dickinson a Edgar Lee Masters. Da Omero a Dino Buzzati; “Il deserto dei Tartari” è uno dei grandi testi sull’attesa. La Fortezza Bastiani è il luogo, o il non luogo, di un’attesa dove ogni giorno tende il suo sguardo e l’animo verso un orizzonte deserto che ammalia e finisce per consumare la vita, fra ansia e speranza. “Ho voglia di vivere, voglia irragionevole e dolce come d’un bambino che vuole una cosa”.
Noi che apparteniamo alla generazione X, quella dei paninari (noi, gli altri, nati nella prima metà del secolo scorso), siamo stati tutti un po’ Penelope, almeno una volta nella vita. “Sentiamo che in fondo tutto resta ancora questo oscuro dilemma da risolvere, e la vita stessa una vibrazione alle pareti delle cose che domanda urgentemente uno spiraglio”. Tutti abbiamo atteso a lungo qualcuno o qualcosa, un Ulisse o un Godot, in una “storia di paesaggi e di stagioni”. E l’attesa è piena di sentimenti contrastanti, “sono passate tante settimane dall’ultima tua lettera, un’intera estate amara… mi sento così abolito”. C’è di tutto nell’attesa, dal desiderio al dispetto, dalla gioia alla disperazione, “mi ripeto che bisogna credere con sovrumana disperazione”; ed è proprio la quantità dei sentimenti che contiene a conferire valore a questo stato fisico ed emotivo, “io leggo le tue lettere come un sollievo, un respiro più probabile”.
Sarebbe interessante leggere le argomentazioni degli studenti al riguardo. “Come stai? Come vivi? quali sono i tuoi problemi, oggi? Vorrei sapere molto di te, per esserti più vicino, per interrompere la monotonia di questo mondo uguale, avvezzo ai disperati silenzi”. Si tratta di una generazione digitale che presumibilmente ha poco familiarità con l’attesa. “Ti riscriverò presto per dirti di me… qui intanto l’inverno è una verità che bussa”.
Per loro che vivono on line, l’attesa dev’essere come il “Mare d’inverno” di Enrico Ruggeri: un concetto che il pensiero non considera. Questa generazione (e oramai noi, con loro) vive nel tempo della condivisione immediata di tutto con tutti, in un click. Dimenticanza immediata, nella vastità di informazioni che inondano senza sosta l’analfabetismo funzionale del nostro sguardo, “l’interminabile silenzio che dura in me”. Questa generazione non ha vissuto quel tempo (che non è poi così lontano), logorante e trepidante insieme in cui si aspettava per qualsiasi cosa, e si esercitava la pazienza. “Tutta la vita sarà stata una lunghissima notte di Giacobbe”. Un periodo in cui la percezione del tempo era dilatata, e forse la comunicazione era più intensa e pulsante, perché non era divorata dalla velocità, da “questo vuoto di noi entro noi stessi”. Forse c’era lo spazio per riflettere un po’ di più sulle parole da dire e su quelle da non dire. “Tante parole in cui credevamo di esserci inventati per sempre”. Un tempo in cui ci prendevamo la briga di prestare attenzione alla misura dell’altro, anche perché eravamo costretti all’attesa, costretti ad aspettare. “Il tempo è crudele e la vita è strana: ricordo male il tuo volto”.
Aspettare il giorno e l’ora per vedere quel telefilm o quella serie che oggi possiamo vedere quando vogliamo, su una qualsiasi piattaforma. Una notte cinque stagioni. Bisognava aspettare un viso, in fotografia, “regala una tua fotografia al mio candore”; aspettare una lettera, poiché eravamo distanti (come oggi, del resto) ma consapevoli di esserlo. “Vivo la solita vita orizzontale. Leggo molto, ascolto la radio, scrivo ogni tanto qualche verso”. La parola, e tutto quello che veicolava, era prima di tutto su carta e aveva una sua corporeità, era toccabile, era fisico il rapporto che si aveva con le parole proprie e altrui, “questa voce d’aria è la tua sorte”.
In passato, la certezza dell’esistenza dell’altro, e di noi stessi attraverso l’altro, specie se fisicamente lontano, passava per un foglio di carta, o per una telefonata da telefono fisso. Viveva in quell’attesa di parole da affrancare e imbucare, stava nel tempo lungo dell’arrivo e del ritorno, “nella misura disperata delle tue emozioni”. Le parole erano forse una forma di resistenza, lì dove nulla si può trattenere: la vita. “Tanta storia dell’anima che si lascia cadere”. Oggi le parole sembrano avere smesso la resistenza e l’attesa, e somigliano a un atto di sopraffazione. “La letteratura, almeno nella sua accezione quotidiana di commerci complicati e risse e parole, mi appare sempre più una cosa proibita e ostile”.
La lettera era attesa solida, era un tendere verso qualcuno o qualcosa, verso “tanta luce dimenticata”. La letteratura è piena di carteggi. “Ora ecco rileggo, e sorrido: che povero alchimista son io, di parole e di disastri”. Sono tanti i carteggi d’amore, e il pensiero corre alle lettere d’amore di Fernando Pessoa indirizzate alla dattilografa bionda: “piccina mia, il Destino è una specie di persona, e smette di tormentarci se ci mostriamo indifferenti a quello che fa”; cantate da Roberto Vecchioni. Numerosi sono i carteggi di amicizia, e fra questi c’è un “Carteggio di gioventù” – splendido e introvabile – fra due ventenni nel mezzo della guerra, “era veramente divenuto un gioco volere o disvolere morire, in quell’estate del quarantasei”. A corrispondere sono Gesualdo Bufalino e Angelo Romanò. Pare che avessero in comune l’abitudine di leggere camminando. “Carissimo Angelo, sono stato contento di ritrovare sul mio tavolo la tua vecchia calligrafia”.
Le citazioni qui presenti sono tutte tratte dal carteggio, che va dal 1943 al 1950. Fu pubblicato integralmente nel 1994 (curato da Nunzio Zago) dal Girasole, casa editrice siciliana di Angelo Scandurra, editore e poeta dai capelli folli e dalla bravura luminosa. Chi scrive possiede una copia del testo, con dedica dell’autore. La dedica è per Sergio Claudio Perroni che di Bufalino fu a lungo editor. “Oso ancora vivere e chiedere, amo i miei giorni uno per uno, come una serie di misteriose vigilie”. Una selezione di dieci di queste lettere si trova nel volume secondo dell’opera di Bufalino, edito da Bompiani nel 2007.
“Caro Romanò, ho ritrovato in non so più che tasca avventurosa il tuo indirizzo insieme a pochi altri ricordi di Fano. Ora che gli ultimi avvenimenti hanno disperso i miei vecchi amici, ed io stesso sono divenuto incongruo e provvisorio, entro paesaggi e minuti imprevedibili”. E’ al corso per allievi ufficiali a Fano che Angelo Romanò e Gesualdo Bufalino si conoscono. “Si finiva sempre con l’alzarsi, le albe di marcia, a Fano”. Diventeranno amici, una di quelle amicizie che le contingenze della vita riescono a rendere solide e durature. “Il ricordo di te rimane uno dei pochi elementi che possono richiamare un passato recentissimo e amato, ma più plausibile e fissato”.
Angelo Romanò, originario della provincia di Como, “il dolce ondulare / della Brianza”, è morto a Roma nell’89. Figlio di un artigiano intagliatore. Scrittore e giornalista, fu il primo direttore del secondo canale Rai. Dirigente Garzanti e senatore della Repubblica. Fu ideatore di sceneggiati (oggi fiction) come i Promessi sposi e l’Odissea. Fu lui, insieme a Giacinto Spagnoletti, a scoprire Alda Merini. “Gioverà una mitologia di calme allucinazioni; è all’altro lato della vita: donne, musiche, albe; paziente stupefazione, cautela di diluvi, il dolore è vetro e geometria, la luce alza sarcofagi. Oppure costantemente morire”.
Quando ci sono di mezzo grandi figure letterarie, la cifra dei testi – oltre alla tonante bellezza – è sempre l’attualità, nonostante il tempo trascorso. La capacità del testo di aderire al presente. Così accade anche per questa corrispondenza di esistenza che “vive e attende con paziente perplessità”. Suscita sempre emozione la capacità di un testo di farsi specchio adeguato al nostro volto, quale che sia il nostro e il suo secolo. “Sento che andiamo incontro a un tempo di pericoli e di eresie senza numero, e che ognuno di noi in ogni modo avrà sempre sbagliato”.
Figura discreta e appartata, enorme nell’abilità linguistica e nella conoscenza, Gesualdo Bufalino, è nato in Sicilia, e lì è morto, nel ’96, in un incidente stradale. Un insegnante nel senso proprio del termine, di chi lascia il segno. Sublime sempre, in prosa e poesia. Figlio di un fabbro con la passione per la lettura. Sottotenente durante la Seconda guerra mondiale, catturato dai tedeschi, riesce a fuggire. La guerra gli regala la tubercolosi, che diventa struttura portante di quel piccolo capolavoro che è “Diceria dell’untore”. Molte delle lettere in questione sono scritte dal sanatorio di Scandiano, dove “sulle verande chiare”, i malati accostano “le sedie a ruote” per parlarsi, e “somigliano a chi recita per la prima volta (…) Sono guarito e un imprevedibile sole mi sviene sui davanzali”. C’è un’aria disincantata e precaria, un passo da controra in questa corrispondenza piena di “scorie letterarie ed esistenziali”, dove “soltanto il necessario assume aspetto di eternità”. Si scriveva per enigmi e metafore, per evitare la censura postale, alcune fanno sorridere amaro: i due parlano di documenti per passare in Svizzera usando la metafora di libri costosi da acquistare, “non so se valga la pena di tentar la lettura, se non in extremis”.
C’è un presente in guerra, “una cronaca friabile che impolvera appena il tempo e stanca il cuore”, e un futuro da sperare, “se resisto a morire, è per amore di chi mi ama, mi pare. Se non è poi inconfessata viltà o un ribrezzo. Del resto un istante basta a ridarmi un sapore dimenticato, e una brama, e la speranza”. I due giovani amici si raccontano il trascorrere delle stagioni che invecchiano i giorni e i volti, qualche lettura (“dimmi ti prego di Kafka che non conosco bene”, “sto lottando in uno sterile esercizio a rendere ‘I fiori del male’ in versi italiani”), qualche entusiasmo. Si dicono le minuzie dell’animo, “scandito da furie di vento e da fittizie bonacce nei golfi sprovveduti del cielo”.
I carteggi letterari sono un viaggio nelle vite altrui che tanto spesso somigliano alle nostre, nei sentimenti arruffati e nei percorsi scoscesi. “Perdona la spossatezza di queste frasi: mi sento svuotato e labile come il vento sui tetti di stasera. Scrivimi a lungo. E, se ti è possibile, a frustate”. Sono testimonianza di identità e attualità, offrono una prospettiva di quella “sorte comune e misurata che ci assedia da ogni parte”. “So che in fondo a me c’è qualcosa che si lamenta, e che un giorno uscirà fuori, con un libro o una pazzia”. Bufalino, sopravvissuto di qualche anno a Romanò, decide di pubblicare il carteggio e dedica all’amico che “sa sorridere dinanzi a un bel verso”, “alla sua memoria e al suo silenzio lontano”, questi “pallidi fogli dissepolti”. Entrambi avevano custodito negli anni la corrispondenza epistolare attraverso cui possiamo vedere la figura di due intellettuali in un momento della loro giovinezza mentre si confessano il cuore, e ci mostrano a squarci un mondo che è storia, nell’altalena di una “malferma aria di sciagure.
Conoscenza e bellezza erano per Bufalino sinonimo di buona vita, “una difesa alla solitudine e al terrore, una persuasione e una consolazione”. La letteratura prova sempre a colmare quella “distanza irrimediabile dell’anima”, nel putiferio di “cose che hanno perduto ogni possibile stupore”. Tenta di insegnarci a essere “all’altezza della nostra sorte”, e ancora, che la vita è “questo docile rincorrere echi distanti da stanza a stanza”. I vantaggi offerti dalla tecnologia sono una gran cosa, l’uso che ne facciamo, forse, lascia un po’ a desiderare. Non sarebbe male provare a evitare “il minuzioso sciupio di leggende e gesti”, tendere verso quella “musica d’infanzia che riduole in noi all’improvviso”, fosse anche soltanto per gestire in modo meno grossolano questo presente così liquido, “senza carità e senza stupori, per trovare un senso qualunque in fondo ai gesti dementi dello spavento quotidiano”.