Facce dispari
Alessandro Rivali: “La guerra, i cattolici e la necessità del mistero”
Direttore delle edizioni Ares, poeta, giornalista, amico di Eugenio Corti, autore de "Il cavallo rosso", capolavoro della letteratura italiana arrivato alla 36esima edizione
Chi unisce i puntini nella vita di Alessandro Rivali, genovese, classe ’77, direttore delle edizioni Ares, poeta e giornalista, si sente facilmente bravo per il nitore degli intrecci biografici. Rivali scopre da ragazzo, alla vigilia di un’estate che paventa tediosa nella campagna ligure, il romanzo di Eugenio Corti ‘Il cavallo rosso’, tra le rare opere di respiro epico del secondo Novecento italiano, di cui è appena ricorso il quarantennale dalla prima pubblicazione (1983) voluta da Cesare Cavalleri, deus ex machina di Ares. Quell’estate di molti anni fa il giovane Rivali ignorava che ‘Il cavallo rosso’ non gli avrebbe solo salvato le vacanze, ma che lui sarebbe diventato discepolo e amico di Corti e Cavalleri. Dal secondo, morto a dicembre scorso, avrebbe ereditato il testimone della casa editrice; del primo avrebbe curato, devotamente, anche le lettere postume dal fronte russo. Chi visita la tomba di Corti, a Besana in Brianza, vi legge incise due poesie che gli dedicò Rivali, il quale in questi giorni sta licenziando le bozze della 36esima edizione del ‘cavallo rosso’, mentre assiste alla pubblicazione del suo romanzo ‘Il mio nome nel vento. Storia della famiglia Moncalvi’ (Mondadori), fermentato anch’esso da vicende di guerra ispirate in cospicua porzione a drammatiche memorie domestiche.
C’era una volta una vigilia estiva…
E c’era un amico che mi consigliò un libro dalla mole imponente e dal prezzo pure: 28 mila lire. La lettura che mi cambiò la vita.
Più tardi avrebbe conosciuto Corti e ne sarebbe diventato interlocutore privilegiato. Sfuggendo al rischio di delusione, frequente per chi apprezza un’opera e poi incontra l’autore.
Fu un’eccezione alla regola. Corti è stato uno dei miei tre maestri: il secondo Cavalleri, uomo fuori scala, poliedrico, cattolico che amava il Gruppo 63, con interessi che spaziavano dall’economia allo ‘Yijing’, editore e critico severo che corrispondeva con Buzzati e s’appassionava alla Callas.
Terzo maestro?
Il poeta Giampiero Neri.
Ossia Giampietro Pontiggia, fratello maggiore di Giuseppe, che intervistammo sul Foglio del 20 giugno 2021.
Era agli antipodi di Corti. Eugenio aveva il passo lungo della narrazione corale, il Neri era la penna dell’essenzialità, la brevitas. Tutti e due però con la caratteristica di ricercare verità e bellezza. Il Neri diceva che un vero poeta è come il Battista nel deserto, può nutrirsi di erbe e locuste ma non deve rinunciare alla verità. Corti, che ha dato voce al popolo della Brianza cattolica, volle conoscere il mondo costruito senza dio: l’Unione Sovietica comunista. Perciò, terminata la scuola ufficiali, sul modulo delle tre preferibili destinazioni per il fronte scrisse: Russia, Russia, Russia. Contro il parere di tutti.
Chi ha letto ‘Il cavallo rosso’ e ‘I più non ritornano’ conosce quelle vicende. A lei, da amico, cosa aggiungeva l’autore?
Corti non poteva portare l’orologio al polso perché qualunque cosa si stringesse al corpo gli ricordava la morsa del gelo russo. Certe notti si svegliava all’improvviso rivivendo gli incubi della ritirata militare. Quando rimpatriò si unì alle truppe alleate. Per continuare a combattere percorse l’Abruzzo a piedi.
La Resistenza bianca è stata sempre meno applaudita di quella comunista.
Nel 2021 Alberto Leoni e Stefano Contini hanno pubblicato ‘Partigiani cristiani nella Resistenza’, attestando che le medaglie al valore ai cattolici furono più di quelle date ai comunisti.
Nel suo romanzo ‘Il mio nome nel vento’ riecheggia l’epica di Corti, ed è una saga che attinge a narrazioni familiari.
Mio nonno scappò da Genova nel 1900 per sposare la ragazza che amava contro il volere dei genitori. Intendevano arrivare in Argentina, ma si fermarono a Barcellona perché lei doveva partorire e raggiunsero la ricchezza aprendo la prima gastronomia italiana della città, che esiste ancora. Persero tutto in una notte, il 18 luglio 1936, quando con la guerra civile spagnola Barcellona fu messa a ferro e fuoco: scapparono su una nave senza neanche le valigie. Mio padre mi raccontò che per non insospettire i rivoluzionari lo imbarcarono col grembiule scolastico. La famiglia pensava di avere ritrovato una vita tranquilla sulle colline in provincia di Alessandria, ma allo scoppio della Seconda guerra mondiale diventarono epicentro di eventi tragici. Mio padre visse gli orrori fra il ’43 e il ’45, perse gli amici nella strage della Benedicta e i tedeschi lo catturarono per deportarlo a Mauthausen, non credendo che avesse solo quattordici anni. Lo salvò la sua professoressa. Gli avevo promesso che prima o poi ne avrei scritto, purtroppo è morto il giorno che sono arrivate le bozze del libro. In pochi mesi se ne sono andati Cavalleri, il Neri e lui.
Un filo separa morte e vita, Mauthausen e la salvezza, ‘i più non ritornano’ e quelli che ce la fanno. I racconti di guerra rendono più evidente l’esiguità del confine. Lei ha una risposta?
La pallottola di un cecchino russo passò tra il collo e il pellicciotto di Eugenio Corti procurandogli solo un graffio. E in Italia un tank tedesco sparò contro la stanza dell’ospedale dismesso dove s’era rifugiato, si conficcò nel muro ma non esplose, spezzando un crocifisso che lui portò con sé. Sono gli imperscrutabili disegni provvidenziali. Il mondo attuale, centrato sulla scienza, preferisce abolire questo mistero dalla vita e così la uccide prima della sua naturale conclusione. La risposta invece deve restare aperta.