i libri degli altri
Umberto Curi, una vita all'università e fra le pagine, “ma da ragazzo i romanzi li ascoltavo alla radio”
Jack London e Platone, il cinema e Kierkegaard. Per una filosofia che non sia “filastrocca di opinioni”
Per tutta l’estate, ogni settimana sul Foglio troverete l’appuntamento di Marco Archetti con un “bibliomane” diverso. Interviste a intellettuali, professori e scrittori per farci raccontare i libri che li hanno formati e appassionati, uno sguardo sulle letture che hanno determinato il loro percorso culturale.
Non sa proprio cosa siano i libri da ombrellone, le letture di svago, l’amabile ciarperia da tempo libero, quel beato scivolare senza l’attrito del pensiero tra le pagine di una prosa arrendevole e balneabile – il che ce lo rende subito molto affine.
Ha sempre detestato “la filastrocca di opinioni”, ossia la forma prevalente che la filosofia ha assunto sui manuali e nelle università – il che ce lo rende assai degno di lode.
Si è preoccupato per tutta la vita accademica e intellettuale di non far soffrire Platone, in ossequio a un testo fondamentale, i cui principi ha rispettato alla lettera – il che lo rende definitivamente ammirevole.
Sostiene che la cinematografia di Clint Eastwood contenga densità filosofica e cita a esempio il bellissimo “Gran Torino” – il che richiederebbe l’abbraccio.
Ma Umberto Curi – quarantun anni di docenza a Padova come ordinario di Storia della Filosofia e vent’anni da direttore della fondazione culturale Istituto Gramsci Veneto – è dietro la scrivania del suo studio, uno studio accogliente, un porto di quiete, non da intellettuale confesso, mentre alle spalle lo assistono le centinaia di migliaia di pagine di una vita di lavoro e pensiero, e sebbene le campane dell’affinità suonino a distesa, ci si impone la compostezza.
Qualcuno lo chiama, dallo smartphone sorge l’“Aria sulla quarta corda” di J. S. Bach e lui lo silenzia. Poi butta lì: “Sa che di recente ho visto un’opera cinematografica intitolata ‘Martin Eden’, che non ha nulla a che vedere col ‘Martin Eden’ di Jack London?”.
Il presente: è del 2020 l’uscita, per Mimesis, del suo libro “Film che pensano”, seicento pagine da “chierico infedele”, e infatti ecco il suo manifesto anti-Corazzata Potëmkin: “Non considero essere un film filosofico, che so, un film russo, con sottotitoli in tedesco, di durata non inferiore alle quattro ore. Per me filosofico è l’approccio all’opera. Perché ogni film pensa. Si tratta solo di capire che cosa. Ha presente ‘Moulin Rouge’? Ammirevole per coerenza concettuale e straordinaria anche la costruzione, cinque livelli narrativi intrecciati. Un capolavoro”.
“Avrò avuto 10, 11 anni. Mio padre scrisse una ‘Storia della Letteratura italiana’, per me fu determinante”
Il passato: “Avrò avuto dieci, undici anni. Mio padre era Provveditore agli Studi e scrisse una ‘Storia della Letteratura italiana’ per Zanichelli, che citerei senza dubbio tra i libri determinanti per la mia formazione. Ricordo un capitolo sul barocco, letto con grande emozione. Ma tra i primi che affiorano alla mia memoria ci sono due opere di Jack London: ‘Jerry delle isole’ e, appunto, ‘Martin Eden’. Il primo è la storia di una cane, un fox terrier. London credeva nella metempsicosi e Jerry è la reincarnazione di un essere umano. ‘Martin Eden’ è invece la rielaborazione della vicenda autobiografica dell’autore. Ricordo di essere rimasto colpito dalla descrizione dell’attesa di Martin che aspetta una risposta dalle case editrici”. Lo sguardo si concentra a mezz’aria, su un’invisibile cellula mnemonica. “E poi c’è questo episodio, a cui non pensavo da anni… Risale al 1952, forse il 1953. Ogni sabato pomeriggio alle due e mezza Radio Rai trasmetteva un programma con la sintesi e la lettura parziale di un romanzo. Mi appassionai tanto a questi appuntamenti che rifiutavo qualunque altro impegno in concomitanza. Un giorno succede una cosa. Ricordo perfettamente questo pomeriggio della mia infanzia. Il racconto che ascolto è ‘L’uomo della sabbia’ di Hoffmann. E’ talmente inquietante che ne riporto una sorta di choc, così abbandono del tutto l’abitudine di ascoltare i romanzi alla radio. Tuttavia il destino ha voluto che in età matura io mi dovessi misurare ancora con quel racconto. Lavorando su ‘Il perturbante’ di Sigmund Freud, mi imbatto in una sua asserzione: ‘Se vogliamo capire che cosa è perturbante – scrive – possiamo riferirci a L’uomo della sabbia di Hoffman’. A distanza di sessant’anni sono passato dall’essere il bambino che ascolta una narrazione radiofonica, allo studioso che riconsidera lo stesso racconto”.
L’elastico è inevitabile, avanti e indietro lungo le strade di una vita caratterizzata da un’invidiabile coerenza narrativa – se Umberto Curi fosse il personaggio di un romanzo, si potrebbe dire che, in lui, “tutto torna”. E a conferma: “Quanto a Jack London, ero particolarmente ispirato da questa sua dimensione non realistica”, racconta definendo la sua Eldorado di epifanie a mezzo letterario. “Il fatto che Jerry fosse un essere umano reincarnato in un cane mi dava una dimensione insolita e feconda del rapporto con l’altro. E mi ha accompagnato a lungo, per lo meno finché non ho incontrato un altro libro della mia vita: prima liceo, e mi imbatto nella lettura di ‘Timore e tremore’ di Søren Kierkegaard. E lì ho capito che non avevo scelta”. Ogni rilettura del passato plasma le sue fatalità, ma qui i nessi appaiono davvero inevitabili. “Ero incuriosito dalla vicenda di Abramo, questo eroe assassino, figura anomala anche rispetto a quelle conosciute attraverso la frequentazione di testi letterari… Ma la cosa che mi aveva colpito di più di ‘Timore e tremore’ era il segno kierkegaardiano, cioè il superamento di ogni impostazione scolastica della filosofia. Mi affascinò la sua capacità di costruire il ragionamento come un dramma. Sembrava una tragedia greca, più che la meticolosa costruzione di un discorso involuto, che era ciò a cui ero abituato”. Inutilmente astrusa e spiraliforme. Esiste eccome, questa tremenda deriva della filosofia. “Infatti il mio primo contatto con la materia non è stato entusiasmante”. Rivelazione uno. “Il manuale mi restituiva un’immagine del lavoro filosofico legato a una dimensione esclusivamente scolastica, invece Kierkegaard era la critica vivente a ogni impostazione rigida e accademica. Questa idea di un libro che contiene una critica spietata alla filosofia, ma che è al tempo stesso l’espressione più compiuta di un approccio filosofico, è stata rivelatrice. Ho capito che la filosofia interessante non era quella dei manuali, e ne ho davvero tenuto conto: il manuale che mi sono deciso a scrivere, dopo tante esitazioni, cerca di interiorizzare proprio questo approccio. E’ un manuale non manuale, un manuale critico del manuale. La filosofia, per me, è la proposizione di problemi rigorosamente posti, non la galleria delle pazzie, come la chiamava Hegel. Anche perché, diciamola tutta: i testi dei filosofi possono essere difficili, ma non sono mai noiosi; i lavori di carattere accademico, che peraltro pretendono di avere la qualifica di opere di filosofia, sono per lo più noiosissimi”.
La Gazzetta dello Sport nascosta all’università, perché, dicevano, “lettura intellettualmente disonesta”
Nato a Verona nel 1941, dopo sei mesi era già a Taranto, dove resterà fino al ginnasio – il padre fu nominato provveditore durante la guerra. “Periodo importantissimo, che mi aiutò a precisare i miei interessi. Ma se non avessi avuto gli ammonimenti severi di mia madre e di mio padre, io sarei sempre stato a giocare a calcio e a pallacanestro. O a nuotare. Ho anche vinto i campionati italiani, sa?”. Rivelazione due. “Lo sport è stato molto importante nella mia adolescenza, e lo è rimasto per tutta la vita. Lo studio non mi interessava molto”. Rivelazione due-bis. “Io amavo leggere, ma studiare non molto, almeno fino all’università. Le racconto questa: appena iscritto a Padova, venni avvicinato da quelli che poi sarebbero diventati, ciascuno nel loro ambito, eminenti studiosi. E accettai il loro invito alla lettura collettiva dei ‘Quaderni dal carcere’ di Gramsci. Poi un giorno tirai fuori la Gazzetta dello Sport, che io leggevo per assecondare i miei interessi, ed ecco che quella mia lettura venne tacciata di essere intellettualmente disonesta. Continuai a leggerla, ovviamente, ma di nascosto”.
(Segue un momento di svagata deambulazione aneddotica. “Massimo Cacciari mi ha sempre preso in giro per la mia passione tennistica. Sa cos’è successo, un giorno? Quello che temevo: quando abbiamo giocato io e lui privatamente, ho vinto diciannove volte su venti. Ci siamo fronteggiati in un torneo e l’unica volta che contava qualcosa, ha vinto lui”).
“L’uomo della sabbia” di Hoffmann, “uno choc”. “La nausea” di Sartre “mi indusse in tentazione mimetica”
Poi Curi riprende il timone della navigazione bio-bibliografica. “Un altro libro fondamentale tra il liceo e l’università,” ricorda, “fu ‘La nausea’ di Sartre. Con quel personaggio che frequenta la biblioteca e viene definito l’autodidatta. E’ uno che legge tutti i libri in ordine alfabetico. Be’, mi indusse in tentazione mimetica. E così, tra i quindici e i vent’anni ho cominciato a macinare romanzi con un criterio simile: prima tutti i russi, poi tutti i francesi, poi tutti gli angloamericani. Divoravo voracemente, per aree geografiche. Assumevo in serie”. Una forma di agonismo atletico riconfigurato? “Chissà. Però molto è rimasto: ‘L’idiota’ di Dostoevskij… Ricordo anche la piacevolezza di Maupassant, mai più riletto nella vita”. Spesso va così, in una vita di libri. Certe letture ci danno molto, ma poi scompaiono e non tornano. “Altre, però, sì: il primo approccio a Melville, di quel periodo, si rivelò fondamentale a distanza di decenni. E proprio per un mio testo sulla figura di Bartleby lo scrivano. E anche qui torna la mia passione per una dimensione che eccede quella dell’immediatamente comprensibile…”.
La rivelazione tre serve per raccontare un altro libro angolare nella formazione di Curi. E fa tremare i polsi. E suona così: “La mia tesi di laurea non fu in Filosofia”. Oddio, ma come? “Mi spiego: la laurea, burocraticamente, è in Filosofia. Però io l’ho conseguita grazie a una tesi col professore di Psicologia, Paolo Bozzi. Fu una boccata d’ossigeno, per me che ero insofferente agli arcaismi dei professori di Padova. Si figuri che nella biblioteca dell’Istituto non c’erano libri che fossero successivi alla metà dell’Ottocento, mancava completamente il pensiero contemporaneo, che a me interessava di più”. E chissà quali sono gli antidoti per resistere a questo tipo di insoddisfazione. “Non ho mai frequentato!” (rivelazione quattro, ma ero pronto a tutta questa sincerità?). “Finché arriva da Trieste questo giovanissimo professore di psicologia che dà del tu agli studenti e buona parte delle lezioni le fa in osteria. E io mi lascio sedurre da questa impostazione. Solo che non ho nessun interesse per la psicologia sperimentale”. Porte strette in ogni dove. “Però alla fine faccio una tesi di laurea sulle origini della psicologia comportamentista, la pubblico, e come sviluppo della tesi decido di occuparmi del fondatore di questa teoria, Percy W. Bridgman, e del suo ‘La logica della Fisica moderna’: un testo eretico, che mi formò, in contrasto con gli orientamenti dominanti nell’Epistemologia. “L’importante di una teoria – scriveva – non è quello che dice di fare, ma quello che fa effettivamente”. E fu 110 e lode? “Sì. Nella mia carriera universitaria io ho avuto solo 30 e lode, salvo una volta. In Filosofia politica: 29. Il professore mi disse: “Lei meriterebbe 30 e lode, ma siccome deve essere più disciplinato dal punto di vista intellettuale, le do il voto dell’umiltà, in modo che se ne ricordi”. La rievocazione non putisce di vanagloria, al contrario, ci ricorda che ciascuno, qua e là, rimedia le sue belle bacchettate – cambiano solo gli ordini di grandezza.
“Krisis” di Massimo Cacciari “fu una svolta: uno sguardo non paludato sulla filosofia contemporanea”
“E dopo aver completato gli studi, ecco il libro che rappresenta una svolta per la mia attività scientifica: ‘Krisis’ di Massimo Cacciari: uno sguardo sulla filosofia contemporanea, non paludato”. Anche l’incontro con Platone avvenne al di fuori degli schemi: attraverso la ‘Lettera Settima’. “Nella quale Platone afferma che la filosofia non è una scienza come le altre, ma è come la scintilla, che scocca all’improvviso e poi si alimenta da sé. Per questa ragione – prosegue Platone – non è possibile compendiare la filosofia in un manuale. E aggiunge: se qualcuno tentasse, ne soffrirei moltissimo. Allora io pensai che la mia vita di ricerca doveva essere ispirata al tentativo di non far soffrire Platone, rifiutando la forzatura sistematica ma valorizzando la carica problematica della sua interrogazione intorno ai temi fondamentali: l’amore, la morte, la guerra, la bellezza, il giusto, il vero. Ultima cosa, posso?”. Permesso accordato. “Citerei anche due saggi di Derrida: ‘Donare la morte’ e ‘La mano di Heidegger’, in cui commenta l’interpretazione di Heidegger al frammento 53 di Eraclito, che recita: ‘Polemos è padre re di tutte le cose’. Derrida ci insegna che il conflitto è anteriore ai confliggenti. E ha un carattere metafisico, non storico-politico”.
Domanda inevitabile, in questo studio che sembra un guscio. “Lei, quando è qui, tra i suoi libri, è felice?”. Il professore non ci pensa nemmeno un momento. “Io qui mi sento al posto giusto”.
Perché Leonardo passa a Brera