Odio le mostre - 5
Che belle le piazze deserte e i monumenti fantasma de “L'Italia è un desiderio”
Spazi silenziosi nelle Scuderie, orrida massa turistica fuori. Un viaggio nella rappresentazione del paesaggio italiano
L’Italia è un desiderio”, è una poesia questo titolo e infatti l’ha scritto un poeta, Davide Rondoni, e quando l’ho letto ho subito sentito l’eco di altre poesie, di altri poeti. Il Pasolini delle “Ceneri di Gramsci”, finto comunista vero incantato: “Mentre prostrata l’Italia / come dentro il ventre di un’enorme / cicala, spalanca bianchi litorali”. E il Fossati di “Pane e coraggio”, finto immigrazionista vero innamorato: “E sì che l’Italia sembrava un sogno / steso per lungo ad asciugare / sembrava una donna fin troppo bella / che stesse lì per farsi amare…”. Con i due versi successivi quasi porno: “Sembrava a tutti fin troppo bello / che stesse lì a farsi toccare”. Ci ho poi sentito l’eco di altre poesie, di altre canzoni e di moltissime fotografie che alla mostra sembrano incredibilmente esserci tutte. Perché sto parlando di una mostra di fotografie e prometto di non farlo più (se odio le mostre di pittura figuriamoci quelle di fotografia, tecnica incontinente). Il titolo completo promette completezza: “L’Italia è un desiderio. Fotografie, paesaggi e visioni 1842-2022. Le collezioni Alinari e Mufoco”. E l’allestimento nelle ciclopiche Scuderie del Quirinale completezza mantiene.
L’Italia è un rimpianto, innanzitutto. Per me misantropo il rimpianto del vuoto o almeno della rarefazione umana. La prima parte della mostra è nutrita dagli archivi della Fondazione Alinari e ricorda deserte le piazze che oggi sono piene di turisti fino a scoppiare: Piazza del Popolo fotografata da Pierre-Ambroise Richebourg nel 1844, Piazza San Pietro fotografata da Tommaso Cuccioni nel 1855, Piazza della Signoria fotografata dai Fratelli Alinari nel 1860… Bellezza silenziosa. Spazi liberi. Città respirabili. Dove sono le persone? Si presume siano a lavorare. Nell’Ottocento la gente lavorava, faticava da fanciullezza a vecchiezza, senza ferie e senza pensione, a malapena ci sarà stata la domenica. Dunque non ingombrava le piazze. Oggi che c’è la “società signorile di massa” (Luca Ricolfi) i lavoratori sono una minoranza e tutti gli altri sono in vacanza, come dimostrano le foto emblematiche di Massimo Vitali. Che però sono Ventunesimo secolo, zona ultime sale, e allora devo tornare indietro per non tralasciare un’altra notevole foto ottocentesca, anzi datata 1850, regnante Pio IX: la Piramide di Caio Cestio catturata da Pompeo Bondini in negativo, con cielo nero e cipressi bruciati dalla luce. Lo stesso effetto, tuttavia ottenuto con mezzi pittorici, di un quadro recentissimo di Daniele Galliano con soggetto Duomo di Parma. La stessa idea di monumento come spettro e davvero sia la Piramide sia il Duomo sono i fantasmi di ciò che furono, apparizioni enigmatiche, retaggi di culti dimenticati… Da non perdere le meravigliose foto senza uomini e però con pecore ancora del primo Novecento, una di greggi brucanti davanti all’Acquedotto Claudio, l’altra sotto Castel del Monte. E guarda caso scrivo queste righe a pochi chilometri dal maniero federiciano, oggi assediato da alieni in braga corta, e non posso che rimpiangere quegli ovini. Non ho più cuore di tornare lassù. Se volete vedere com’era, cos’era il castello di Federico di Svevia non venite in Puglia: andate a Roma. Alle Scuderie, nella foto di Edith Arnaldi del 1935, l’imperatore sembra andato via da poco, mentre su Instagram e in loco è solo uno sfondo per selfie. Odio le mostre ma odio ancor più il turismo e “L’Italia è un desiderio” spesso realizza il mio sogno di un’Italia senza vacanzieri anche nella seconda parte, quella più contemporanea con le foto della Collezione Mufoco (che caspita di nome: sarebbe il Museo di Fotografia contemporanea). “Lucania” e “Puglia” di Franco Fontana che una volta non mi piaceva, troppo grafico, ma adesso mi appare un’oasi nel frastuono. “Stigliano, Matera” di Mario Cresci, per ribadire quanto sia fotogenico il paesaggio lucano. “Oviglio, Alessandria” di Vittore Fossati, il più bell’arcobaleno degli anni Ottanta. “Follonica” di Olivo Barbieri, un mucchio di angurie su cui aleggia una festa ma soprattutto Luigi Ghirri, che per quanto mi riguarda è stato molto più di un fotografo, è stato il maestro che mi ha insegnato a vedere, dunque ad amare, dunque a desiderare la Pianura Padana. Gianni Celati scrisse che le fotografie di Ghirri “tolgono di mezzo un luogo comune tra i più penosi, secondo cui il mondo si dividerebbe in aspetti interessanti e banali. Tutto diventa interessante, ossia tutto acquista la dignità dell’essere”. Avete capito bene: la dignità dell’essere. Che è già qualcosa di grande ma io ho pronta una formula ulteriore, e pazienza se sembra Heidegger: la rivelazione dell’Essere. Che si materializza in un alberello, in una tapparella, in uno scivolo per bambini, cose piccole per la poesia più alta. Alle scuderie del Quirinale le immagini di Ghirri ovviamente non mancano come non mancano quelle di allievi e ammiratori. Le amo tutte. E come potrebbe essere altrimenti? Tutta l’Italia desidero e amo. Detto questo mi permetto una preferenza, sperando che nessuno si ingelosisca, ed è “Rimini” di Claude Nori, scattata nel 1983 a una ragazza che gioca a racchettoni sulla spiaggia. Scarseggiano i bagnanti, forse è fine giornata, e non c’è nemmeno l’avversario. C’è soltanto lei, il suo slancio, le sue gambe, i suoi capelli, il suo sorriso. Nori, francese di origine italiana, è il fotografo della giovinezza e della gioia, merce rara. Se potessi farmi e fare all’amico lettore un augurio sarebbe di un’estate così.
Poi fuori sulla piazza assolata del Quirinale, brulicante di turisti tutti senza eccezioni, senza scampo, intenti a fotografare. Sono rivolti in tutte le direzioni, Palazzo, Obelisco, Veduta di Roma, e sembra un set di Massimo Vitali.