I libri degli altri-2
Alla ricerca di Proust. Intervista a Mariolina Bertini
Dell’autore della “Recherche” “ci si innamora”, racconta la francesista. Ma per lei ci sono anche Balzac e Girard, è apologeta di Liala e “le vite di riserva le dedicherei a Chesterton e Annie Vivanti”
Per tutta l’estate, ogni settimana sul Foglio troverete l’appuntamento di Marco Archetti con un “bibliomane” diverso. Interviste a intellettuali, professori e scrittori per farci raccontare i libri che li hanno formati e appassionati. L’11 luglio abbiamo pubblicato “Libri che pensano”, a colloquio con il filosofo Umberto Curi.
Quando sarà stato? Diciamo quindici anni fa. Mi trovavo nella grande sala d’aspetto di un aeroporto quando, a un certo punto, ho visto René Girard arrivare coi suoi meravigliosi occhi azzurri. Ora, non so se gli occhi di Girard fossero davvero azzurri. Però è stato uno dei sogni più belli che ho fatto nella mia vita”.
Mariolina Bongiovanni Bertini, docente e magnifica francesista, è una donna libera, mite e risolta. Cinquant’anni a occuparsi di letteratura, e li dimostra tutti: proustiana eleganza narrativa, balzachiana per vivacità, la grazia nel gesto è la stessa che si ritrova nei tratti dei disegni di Madeleine Lemaire che corredano il volume I piaceri e i giorni di Marcel Proust, da lei tradotto e curato per Mondadori con Giuseppe Girimonti Greco. Abita da una vita a Cit Turin, “Torino piccola” (quartiere, istruzioni per l’uso: molto liberty, molto déco, e una secca, regolare geometria di strade tra corso Inghilterra, corso Francia, corso Ferrucci e piazza Benefica) ma è nel mondo grande della cucina di casa sua, una cucina vissuta, cordiale e tappezzata di locandine e fotografie – i libri li tiene anche qui, in una libreria bassa – che ci racconta il primo libro che l’ha messa al mondo. René Girard, appunto: Menzogna romantica e verità romanzesca.
“Un testo che ha come oggetto la letteratura, ma soltanto in apparenza”, premette. “Il libro su cui si è articolata tutta la mia vita intellettuale. Con quell’idea angolare, che l’uomo moderno non è più capace di desiderare direttamente, ma ha sempre bisogno di un mediatore. Un momento di rivelazione che ha cambiato il mio modo di leggere e di guardare la società e la politica”. Difficile immaginare personaggi di tale saldezza intellettuale in flagranza di non comprensione, per cui chiederlo è inevitabile: cosa le mancava, prima, per capire la realtà e la politica? “Quel che Girard ha imparato da Proust, cioè che i meccanismi dello snobismo e della gelosia non agiscono soltanto nel mondo dello snobismo e della gelosia, cioè nei salotti e nei rapporti tra innamorati, ma sono grandi strutture psicologiche su cui si fondano tutti i rapporti umani. Dunque i rapporti tra i dirigenti di Lotta continua e militanti di base si capivano molto meglio guardando attraverso Girard e Proust, che guardandoli direttamente”. Aveva bisogno di una riflessione mediata. “Lo vede? Girard è stato davvero incommensurabile. Però mi è molto dispiaciuto il fatto che, dopo il successo riscosso coi suoi primi libri, si sia arroccato sulle proprie posizioni, il che gli ha allontanato le generazioni successive. Due miei maestri, Francesco Orlando e Mario Lavagetto, la pensavano come me: Girard ha avuto un’importanza enorme anche per loro, pur non essendo cattolici”. Deludente vedere un intellettuale che amiamo farsi legnoso, renitente a ciò a cui sarebbe chiamato e alle ragioni per cui lo amiamo, autodemansionato a manutentore del monumento di sé, incapace di accettare il tempo e il deterioramento del proprio pensiero al punto da evitargli il corpo a corpo con la realtà. “Andò proprio così: diventò sprezzante, chiuso, intollerante verso le critiche. Mi è molto dispiaciuto. Ma per fortuna il dispiacere non agì retrospettivamente”.
Quando tutto comincia è la fine del 1966. Manca poco al 1967, quando all’Università di Torino scoppia il Sessantotto. Le occupazioni con Fabio, il cugino di Primo Levi. Le manifestazioni. I “controcorsi”. Leggersi Adorno e i francofortesi, eccitati e spaesati. Poi le lezioni di Estetica di Gianni Vattimo sull’Ermeneutica di Schleiermacher – galeotte le lezioni e chi non le capì. “Cosa fosse l’Ermeneutica, noi non lo sapevamo. Quanto a Schleiermacher, figuriamoci”. Ma noi chi? “Io e Bruno”. Bruno Bongiovanni, storico torinese, “il marxologo”, lo studente che diventerà presto suo marito. E’ lui che le porterà in clinica i volumi della Recherche, edizione economica Mondadori, collana il Bosco, copertine di cartoncino, lilla quella de La strada di Swann. “Proust ho finito di leggerlo lì, nel dicembre del 1968, dopo aver partorito mia figlia Chiara”. Gli interessi furono, da subito, letterari. “Sempre amato leggere. Merito anche di un professore delle superiori che si chiamava Giuseppe Guido Ferrero. Arrivata all’Università pressi atto che le lezioni erano molto meno interessanti delle sue: grandi critici che leggevano, declamando, i propri scritti… E poi gli strutturalisti duri e puri, D’Arco Silvio Avalle e gli orecchini di Montale, le letture scientifiche del testo letterario… niente che mi interessasse. Quindi sono passata da Lettere a Filosofia, ed ebbi la fortuna di seguire le lezioni di Luigi Pareyson, professore di Filosofia morale, sulle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij. Poi nel Sessantasette leggo Fortini: parlava dell’importanza di Proust. Io Proust non lo conoscevo, ma il suo nome mi era familiare”. Per interposta Natalia Ginzburg. “L’avevo letta dopo le letture per ragazzi. All’epoca era così: finite le medie, venivi schiaffato. E passavi da Tom Sawyer alle letture da adulti. Da L’isola del tesoro al Sottosuolo. Così i miei mi somministrarono Cristo si è fermato a Eboli, ma non mi piacque. Conversazione in Sicilia, e mi piacque ancor meno. Lettere di una novizia, disastro totale. Io pensavo: era meglio la letteratura da bambini! A quel punto, mi salva Lessico familiare. Scoprii un libro divertente, spiritoso, commovente. Con quel modo di raccontare la vita così diretto, senza fronzoli… Se mai dovessi scrivere un libro – mi dicevo – vorrei scriverlo così. Ma tornando a Proust: Natalia Ginzburg racconta che suo padre lo definiva un tanghero. Chi era, dopotutto, questo Proust? Era uno che stava chiuso in una camera foderata di sughero, dice. Mentre la sorella lo amava tantissimo. Qualche briciola di proustismo mi arrivò da lì. Cominciai a leggerlo e non mi fermai più”.
Non glielo permisero, diciamo pure. “In effetti dopo la mia tesi su Proust, Einaudi mi chiamò per rivedere le loro traduzioni, per scrivere nuove introduzioni... Ma io a quell’epoca leggevo gli articoli della Cederna sull’Espresso e della Fallaci sull’Europeo e sognavo di fare la giornalista. Poi mi sono accorta che non era la mia strada. Glielo racconto perché uno dei luoghi comuni dominanti di questo periodo è dire ai giovani: dovete seguire i vostri sogni, non traditeli. Be’, se io mi fossi ostinata coi miei sogni avrei raccolto solo delusioni. Non sarei mai diventata una brava giornalista, era solo un’illusione dettata dall’ammirazione per questi due modelli. Ma il sogno era sbagliato. Direi che ha funzionato meglio la realtà. E la mia realtà era scrivere delle prefazioni a Proust, a Balzac. Essere un ponte tra gli specialisti e il lettore comune”. E amarli. “Di Proust ci si innamora. Non così con Balzac. Però Oscar Wilde diceva: come si fa a tornare a parlare coi nostri amici dopo che siamo stati con Lucien de Rubempré? Sembrano tutti insignificanti! Il mondo di Balzac è un mondo vivo, evidente. Il mondo di un illusionista che crea la realtà”. Anche a Balzac ci è arrivata per interposto qualcun altro – Proust appunto. “E grazie a un enigma. Poco prima della curatela della Recherche per Einaudi nel 1978, curai il Contro Sainte-Beuve. Lì Proust spara a zero su Balzac: scrittore volgare, esplicito, tutto mezzucci. Però a me non tornava. E non tornava perché uno dei personaggi principali della Recherche, il barone di Charlus – grande esteta, uomo raffinatissimo e intelligente – dice che il suo scrittore preferito era proprio Balzac. Addirittura, a un perplesso professor Brichot, accademico della Sorbona, spiega che Balzac ha scritto La ragazza dagli occhi d’oro, una storia d’amore lesbico, e che il suo principale eroe era Vautrin, un criminale omosessuale, incarnazione altissima della ribellione alla società. A lei non piace – dice al pedantissimo professore – perché lei non sa nulla della vita. Ma Balzac sì. Be’, io ho molto riflettuto e scritto su questa intuizione del barone. E ho capito che il pensiero di Proust è cambiato nel tempo: Proust è stato folgorato da Vautrin. Balzac fu l’unico che, nel suo tempo, aveva osato parlare di quella che Proust chiama la razza maledetta, quella degli omosessuali, e lo riconosce come un suo predecessore”.
In tanto prousteggiare, poco tempo per i romanzetti? “No no, per me sono importanti anche quelli! Io, per esempio, ho una cantina piena di gialli. Amo Agatha Christie, John Dickson Carr. E quelli di Michel Bussi, Ninfee nere è bellissimo. Ma i primi che ho letto furono i racconti di Sherlock Holmes nella casa di famiglia a Champoluc, in val d’Ayas”. Poi tenta l’autoritratto: “Io sono come quel personaggio di Hellzapoppin’, ricorda? Il lettore di libri gialli. Compare sempre dove c’è una luce, in scena, sotto una lampada, e non riesce a staccarsi dalla lettura. Se avessi due vite di ricambio, una la dedicherei a Chesterton”. L’altra? “A Annie Vivanti.” Desta stupore, il discorso sulle vite. Perché Mariolina Bertini, da studiosa, ne ha avute molte. Una legata anche a Georges Perec. “La vita, istruzioni per l’uso è un altro libro fondamentale. Per chi ama la narrazione, è una festa. Tutto il mio periodo all’università di Parma è legato a lui – guardando indietro, lo vedo come il centro di tutta la mia attività di insegnamento. Quel che mi ha appassionato di più è stato scoprire cosa si nascondeva dietro la sua opera più luminosa: il buio. Cioè il trauma della morte della madre ad Auschwitz. Quando aveva cinque anni, la madre lo spedisce su un treno della Croce rossa per salvarlo e mandarlo nella zona libera. Lei verrà deportata. Lo alleverà la zia, che un giorno gli rivelerà la morte della madre e l’amara verità: non c’è una tomba sulla quale piangere. La vita di Perec è segnata da questo lutto inesprimibile: guarda una foto della madre, una foto di sé stesso bambino, e scrive W o il ricordo d’infanzia. E si inventa i ricordi. E coi ricordi, la storia di un’isola. Un luogo che ripesca, lo immaginava da ragazzino, un luogo in cui si dovrebbero realizzare gli ideali olimpici attraverso lo sport. Ma in realtà regna una violenza mostruosa: chi perde una competizione viene torturato e ucciso, la procreazione avviene attraverso gare che finiscono in stupro. E’ un libro pieno di dolore e orrore, che gli ha reso possibile scrivere il gioioso La vita, istruzioni per l’uso. Solo così, in lui, nasce la possibilità di raccontare. Io ho scoperto W nel modo più bello: coi miei allievi”.
A questo punto manca solo lei. Certo, sulla carta, un passaggio brusco. Ma in questa cucina grande di Torino piccola ecco che sembra possibile tutto, ogni evocazione – con reminiscenza aldobusiana. Capitolo Liala. Anzi, un libro intero: Mariolina Bertini, nel 2022, ha firmato un saggio intitolato proprio Su Liala. Una la cui lingua è stata studiata quasi quanto quella di Gadda, peccato che l’amata Cederna definisse le sue lettrici “casalinghe frustrate e manicure senza orizzonti”. Bertini se la ride: “Secondo me la leggeva”. E, nel suo saggio, la mette così: “Scrivere di Liala ha significato fare i conti con il mio rapporto con la lettura”. Non solo: con una gioiosa dipendenza e con la scoperta di un libro che, intercettato per la prima volta, sembrava appartenere a un universo di letture parallelo, attraente perché riempiva il vuoto lasciato dalle letture giovanili – quello delle storie sentimentali. La madeleine di un titolo: Dormire senza sognare. Fu il primo di cui sentì parlare, letto dalla tuttofare di casa, la Piera, giovanissima donna di servizio che veniva dalle Langhe. Alle domande insistenti di Mariolina, scorciò la trama così: “E’ la storia di Lalla, una ragazza bellissima, infelice per amore. Alla fine cade da cavallo e muore. Mentre muore, dice: morire e non sognare”. Pausa. “Non sai quanto ho pianto.” (Non sembra un paratesto da buttar via). “A Liala – racconta Bertini – piacevano molto i corridori. E l’odore, cito letteralmente, di maschio deterso, di sigarette e di benzina”. Nel capitolo Apologia di Liala – pagine che le chiese Oreste Del Buono – parla di “esuberanza dell’ornamentazione”. “Certo. Sa, oggi le lettrici della chick lit assomigliano alle protagoniste dei romanzi che leggono. Liala la leggevi per sognare”. Un mondo di donne in vestaglie di amoerro rosa, con fibbie di topazio intagliate a scarabeo e sottovesti color gridellino. Fiumi di colonia inglese e docce tra marmi e cristalli. Un’idea, in proposito, ce l’aveva proprio Proust. “Non disprezzate la mauvaise musique”, scriveva. “E’ piena dei sogni e delle lacrime degli uomini”. “È piena dei sogni e delle lacrime degli uomini.”
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