Il Tonio Kröger di Stephen King, cresciuto a giornaletti e chewing-gum
Torna in libreria “Stagioni diverse” in una suggestiva operazione a quattro, una voce diversa per ciascun racconto: Loredana Lipperini, Stefano Giorgianni, Simona Vinci, Andrea Cassini
Una delle notazioni più interessanti sottese al romanzo-saggio sui giochi di ruolo La stanza profonda di Vanni Santoni è che nella società occidentale contemporanea sono in gran parte scomparsi i riti di iniziazione. “Capivo appunto che ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un mito”, confidava già Pavese. Anche per questo – forse – il drago lo si uccide ancora e ancora, ancora e ancora ci si addentra nelle segrete di un videogame, ben oltre l’età in cui culture diverse consideravano quel passaggio già alle spalle in una serie di esperienze specifiche, di confronti col limite, la morte, la vastità spigolosa e seduttiva dell’universo, che poi vengono incanalate in maturità e saggezza.
“Avevo dodici anni, quasi tredici, quando vidi per la prima volta un essere umano morto. Accadde nel 1960, un sacco di tempo fa… anche se a volte non mi sembra passato così tanto tempo. Specialmente quelle notti in cui mi sveglio di colpo mentre sogno la grandine che cade sui suoi occhi spalancati.” Sono passati quarant’anni dalla prima edizione di Stagioni diverse, la raccolta di Stephen King adesso ripubblicata in Italia in una suggestiva operazione a quattro, una voce diversa per ciascun racconto: Loredana Lipperini, Stefano Giorgianni, Simona Vinci, Andrea Cassini. Tre sono diventati film, a firma di Rob Reiner, Bryan Singer, Frank Darabont, uno dei tanti segni dell’impatto nell’immaginario collettivo delle storie del “Re”, che da culto degli appassionati di genere è assurto a icona letteraria. Quando gli fu conferito il National Book Award, Harold Bloom, gran cabalista della critica, lamentò l’involuzione suicida dell’apprezzamento letterario. Dal canto suo lo stesso King ha più volte ironizzato sugli scrittori che impiegano dieci anni per buttare giù un romanzo e in realtà si starebbero facendo le seghe, dall’altra si è spesso crucciato che nessuno gli domandi mai questioni di stile come invece accade ad Annie Proulx o Don DeLillo. Adesso la consacrazione è arrivata: saggi critici, paragoni con Dickens, tributi da generazioni di autori cresciuti con Carrie o It. Per il sopracitato Santoni, King costituisce addirittura un rischio per aspiranti autori, perché è riuscito a cavare esiti vittoriosi attingendo a fonti e linguaggi che possono indurre a soluzioni troppo facili. Per Lipperini anche in questo risiede il suo valore: aver tratto linfa dal fumetto, dalle riviste di racconti popolari, dai B-movies, incanalando tutto in un nuovo mazzo dei Tarocchi dell’inconscio collettivo, dalla strega che massacra i compagni tormentatori alla festa di scuola alla fanatica che rapisce uno scrittore e gli spezza le gambe, obbligandolo a diventare un novello Sherazade.
Ne Il corpo, racconto sull’estate in Stagioni (e poi film diretto da Reiner con titolo, anche nella versione italiana, Stand by Me), ecco un altro archetipo contemporaneo, assolutamente particolare e proprio per questo universale, che fonde le elegie sull’adolescenza di Bradbury e le Quest degli Hobbit. Quattro ragazzini, un cicciottello, un mezzo scoppiato, il figlio d’una famiglia di delinquenti e un aspirante scrittore viaggiano di nascosto nei boschi intorno alla loro cittadina assopita per trovare il cadavere di un coetaneo. Un gioco che diventa passaggio all’età adulta e vocazione al racconto, suscitato o acuito dal confronto col tempo e con la morte, in una di quelle estati che si vivono solo a dodici anni, fatte di giornate lunghissime e mesi che volano in un lampo: “Come colonna sonora, i Fleetwoods che cantano Come Softly to Me e Robin Luke che canta Susie Darlin’, e Little Anthony che intona I Ran All the Way Home. Erano tutti tormentoni dell’estate 1960? Sì e no. Principalmente sì. Nelle lunghe serate violacee quando il rock and roll della Walm sfumava nelle radiocronache del baseball sulla Wcou, il tempo si confondeva. Ho l’impressione che fosse sempre il 1960”. Le fughe dai cani di guardia, le sfide a scansare i treni, le storie dell’orrore davanti al fuoco, l’amicizia e la diversità rispetto ai modelli più facili, che siano quelli solari del successo sportivo e sociale o più brutali e ottusi. E l’affiorare di una chiamata – “E’ come se Dio ti avesse dato un dono, tutte queste storie che riesci a inventare, in pratica ti ha detto: Questo è il talento che abbiamo messo da parte per te, ragazzo. Vedi di non sprecarlo” – che è quanto ti isola e al tempo stesso ti permette di vederlo, quel mondo attorno: “Cominciammo a correre, le scarpe da ginnastica che scavavano nel terreno duro, cotto dal sole, il torace spinto in avanti a precedere le gambe strette nei blue jeans, i pugni serrati. Arrivammo pari, con Vern dal lato di Chris e Teddy dal mio che ci alzarono il dito medio nello stesso istante. L’albero era piegato leggermente verso ovest, quasi avesse tanta voglia di tirarsi fuori le radici dalla terra come una vecchia signora che si solleva la gonna per andarsene da quel diavolo di posto”. Si viaggia verso un cadavere che è sempre il nostro per tornare nella contea e trovarla piccola, mutata. Un ritratto dell’artista come dodicenne, un Tonio Kröger cresciuto a giornaletti e chewing-gum.