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Proust attraverso gli occhi di tre parrucchiere. Un libro
Il microcosmo di Clara letto attraverso la “Recherche”. Il romanzo di Stéphane Carlier ci ricorda che la letteratura è per sua sostanza capace di parlare anche a chi non è preparato ad accoglierla
Clara legge Proust (Einaudi, 2023) è un divertissement che, dovendo immaginare – in un gioco senza pretesa di scientificità – se sia firmato da una donna o da un uomo, sembrerebbe a chi scrive l’opera di una penna femminile.
Forse perché è ambientato nel salone di una parrucchiera, o perché la protagonista, Clara, è una giovane ragazza sorridente, o forse piuttosto perché – osando – il libro potrebbe essere ascritto, a suo modo, alla “chick lit” (letteralmente letteratura per pollastre, ma – beninteso – qui si tratta di un romanzo con un certo spessore letterario) in cui la protagonista guarda alla vita e all’amore con ironia e leggerezza.
Si tratta della storia di Clara che lavora nel negozio di parrucchiera della signora Jacqueline Delage al secolo Jacqueline Habib (“non ha mai perdonato al marito quel cognome”), bizzarra cinquantenne in “blusa di seta color tabacco o leopardata, braccialetti che scintillano a ogni minimo movimento e Shalimar, tanto Shalimar, così tanto Shalimar che ci ha impregnato il locale”. Con loro anche “Nolwenn, l’altra dipendente del salone. Il suo viso non ha propriamente dei contorni ed è raro che cambi espressione. Che stia raccontando dell’aborto spontaneo di sua cognata o che stia porgendo a Clara un regalino per il suo compleanno (…)”. Questa, dunque, l’ambientazione scenica della storia – quasi teatrale, invero – e soprattutto questo è il tono scanzonato che accompagna il lettore nel seguire le vicende delle tre donne del Cindy Coiffure e delle loro clienti.
In quel microcosmo si dipana l’esistenza con le sue tragedie e, di contro, trovano l’agio di essere raccontati i momenti buffi che ogni vita contiene, anche nell’ora più nera. “Non rientravo in nessun casella” racconta Claudie. “Tutti quanti entravano nella loro brava casella, io ci provavo ma non era mai quella giusta, mi sentivo come un gatto cui si chiede di risolvere un’equazione a due incognite (…). Ho scritto una lettera in cui spiegavo tutto quanto, ho preso un tubetto di Lexomil e l’ho buttato giù con un Cointreau, mi sono stesa sul letto e mi sono addormentata. (…) Mi sono risvegliata all’ospedale molto seccata di essere viva”.
La trovata “rocambolesca” dell’autore di Clara legge Proust – che invece è uomo: Stéphane Carlier, figlio di un noto inviato televisivo francese e fratello di un altrettanto noto attore – è stata invero quella di trovare come strumento di mediazione tra la vita e i pensieri di Clara una delle opere massime: la Recherche. Scommettendo sull’apparente ossimoro de “la parrucchiera che legge Proust”, Stéphane Carlier vuole mostrare come la letteratura sia per sua sostanza capace di parlare anche a chi non è preparato ad accoglierla. “Proust. Prima questo nome mitico era per lei come il nome di certe città – Capri, San Pietroburgo… – dove era sottinteso che [Clara] non avrebbe messo piede”. E invece: “(…) Nolwenn aveva dei modi di fare che le ricordavano Françoise nella Ricerca. Poi è toccato alla signora Habib (…) e alla fine ha capito: (…) qualsiasi piccola cosa diventa una cosa proustiana. Un grappolo di glicine (…). Il pulviscolo sospeso nella lama di luce che fende il buio di una stanza. E Annick, sua madre, che ogni volta che le fanno una foto volta leggermente la testa e socchiude le labbra come se qualcuno, qualcuno che non è il fotografo, la stesse chiamando proprio in quel momento”. Si può considerare quella di Carlier una sfida che viene vinta se, dopo aver letto il suo romanzo, anche un solo lettore si prenderà la briga di aprire (o ri-aprire) la Recherche. Se conta anche chi scrive: la sfida è vinta.