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teatro

Una famiglia sulle punte: il viaggio artistico della Socìetas

Marinella Guatterini

La saga dei Castellucci-Guidi, dall’avanguardia a Cesena negli Ottanta alla nuova generazione di ballerini e coreografi. Storia di un teatro-famiglia unico nel suo genere

Nella campagna romagnola due bimbetti disegnano con impaziente fervore: fissano sulla carta ciò che vedono: vagabondi, mendicanti, donne con la bocca spalancata e forse la voce al vento. “A noi sembravano personaggi sbucati dalle fiabe”, dicono Claudia (1958) e Romeo (1960) Castellucci a un cronista del Monde nel luglio 1998. All’epoca i due fratelli non sanno ancora leggere, ma Claudia è certa che realizzare i loro disegni dal vivo in forma di tableaux vivants sia vita rappresentata, riprodotta, come quella dei piccoli circhi di passaggio nei dintorni di Cesena, dove di lì a poco si sarebbero trasferiti con i genitori: ceto medio, nulla a che fare con arte o umanesimo.  

  

Le loro recite sono spontanee, includono abitanti del borgo e animali non solo da cortile e c’è sempre una lotta in ballo tra “forze nemiche e una delle due ha la meglio”, si racconta nel bel libro “La disciplina dell’errore. Il teatro di Romeo Castellucci. Scritti e interviste”, a cura di Jean-Louis Perrier, Cronopio, 2022 (traduzione di Ces années Castellucci). Nell’inurbata Cesena il teatro per un po’ cessa, ma la sospensione è breve. I due Castellucci vanno a scuola e una volta giunti all’età del liceo scelgono l’artistico a Bologna, dove si nutrono di pitture e sculture e, convintisi che nell’arte visiva “la forma prevalga sul contenuto”, ne informano il loro teatro “per figure”. Sì, perché ogni sabato insieme a un gruppetto di quindicenni tra i quali s’infilano altri due fratelli, Chiara, futura moglie di Romeo, e Paolo Guidi, tornano alla loro espressione artistica preferita in un vecchio magazzino di Cesena. Macinano progetti, elaborano teorie, s’infatuano di Grotowski e Allan Kaprow, degli happening e di Carmelo Bene che aveva scelto il Teatro Bonci di Cesena per i suoi debutti. Non temono confronti: improvvisando danzano, elaborano gesti, prediligono Bertolt Brecht. Soprattutto desiderano fuggire da Cesena per buttarsi nel mondo di un teatro sperimentale in totale ebollizione.

   

Negli scantinati romani dei primi anni Ottanta, la banda Castellucci molto sfoltita (sono rimasti in sei) riceve sonori schiaffoni. Cenno, la seconda, visionaria pièce presentata nella capitale, è zeppa di segni, vaneggi di danza, musica, letteratura, mito: non piace a nessuno. Viene però soppesata dal mite Giuseppe Bartolucci, guida e talent scout di tanti giovani artisti sperimentali, “schizzinosa nelle angolature, ma anche d’impossibile innocenza”, scrive. Insomma per occhi esperti, il gruppo già sprigiona una certa seppur nevrotica e imperfetta malia. Premonizione di successo? Sicuramente di perseveranza che ne è il viatico. Per nulla turbati, anzi sempre più convinti delle loro azioni/teorie iconoclaste i sei tornano a Cesena. E’ il 1981; non hanno mezzi economici né spazi, eppure procedono imperterriti nelle loro ricerche e letture. In quattro: Romeo, Claudia, Chiara e suo fratello Paolo sono già Socìetas Raffaello Sanzio, e in parte già un mezzo teatro-famiglia, anche se per arrivare alla folta casata a nome Castellucci bisognerà attendere l’unione di Chiara e Romeo e la nascita di Teodora prima di altri cinque figli – Demetrio, Agata, Cosma, Sebastiano ed Eva – nati uno dopo l’altro, un po’ come gli spettacoli di genitori e zii che ormai hanno superato la fase di rodaggio e come tutti i gruppi di ricerca del periodo vantano fan e detrattori accaniti. La SRS con il suo vasto e attivo parentado è però senza eguali in Italia e forse nel mondo, sempre non si voglia risalire all’epoca della Commedia dell’Arte o alle folte e intricate dinastie di ballerini e coreografi italiani del ‘700. 

     

Teodora ricorda di essere stata inserita sin da piccola negli spettacoli della famiglia assieme ai fratelli non appena si reggevano sulle gambe. Sono ricordi sfocati e per tutti loro erano giochi, non così diversi dalle recite infantili di papà e zia. Ci sono molti animali, pecore, capre, scimmie, mucche, maiali, levrieri liberi di scorrazzare ovunque e anche animali che possono incutere paura come i serpenti. Anche perché ormai non è più la Socìetas Raffaello Sanzio ad andare a Roma, ma critici, fan e appassionati a raggiungere Cesena. Qui gli ambienti sono coloratissimi, tutti dipinti di rosso, come in Gilgamesh, che appartiene al ciclo esotico dei viaggi nell’Ade. Sono anche e spesso affollati di persone sensibili e, come i figli Castellucci, ignare, al pari del nobilissimo Amleto, un bambino autistico, protagonista di uno Shakespeare che già nel sottotitolo “La veemente esteriorità della morte di un mollusco” lascia immaginare un’esegesi controcorrente del testo del Bardo. Ci sono anche le Favole di Esopo predilette da mamma Chiara, ma amate da tutta la compagnia per la mimesi come prassi inventiva di un mondo e della sua ripetizione che incanta i piccoli. Però, bisogna rispettare tutto alla lettera e se una fiaba necessita di pecore, eccone settanta che invadono il Teatro Comandini, al centro di Cesena, nel frattempo ristrutturato dalla stessa Socìetas Raffaello Sanzio e all’occorrenza distrutto come in Pelle d’asino, una storia che si svolge nel sottosuolo ed esige che il pavimento sia divelto. 

     

In tutta questa dolce e/o crudele follia teatrale che fa bene alle menti addormentate e agli accaniti difensori della parola “che si deve capire bene”, giunge una prima scomunica dal Ministero nazionale: toglie a Romeo, ormai regista onnipresente ma mai solitario, e alla sua connivente casata ogni sovvenzione. La risposta è una gran Festa Plebea, un convegno europeo e un primo premio Ubu per la residenza e la posizione pubblica ormai acclarata. Il tentativo di scomunica o di censura del governo italiano nei confronti della SRS fu comunque poca cosa rispetto allo scandalo e alle veementi diffamazioni diffusesi da Parigi – dove nel 2010 debuttò Sul concetto di volto del figlio di Dio – all’Italia. La performance del solo Romeo sporcava con una miscela di orzo e farina una copia del Salvator Mundi di Antonello da Messina appiccicata a un muro e poi lacerata. L’abbinamento tra la “zuppa” e talune mefitiche fialette alla merda usate per gli scherzi di Carnevale, finì per essere identificato come sterco tout court, scatenando picchetti e proteste di religiosi ovunque la pièce fosse rappresentata. 

   

Omaggio alla merda in scatolette di Piero Manzoni, ma anche idea di mostrare l’incontinenza defecante di un Padre malato, steso a letto e di un Figlio che sfoga rabbia e dolore sul magnifico volto del da Messina mentre un gruppo di ragazzini gli getta addosso delle granate, Sul concetto di volto del figlio di Dio fu recepita come autentica e blasfema provocazione. Non fu facile resistere a tanto sdegno. Fine retore, di scabra ed elevata sensibilità artistica, Romeo riuscì con la sua centellinata e vasta cultura, formatasi già da bimbetto accanto alla ancor più erudita sorella Claudia, a congedare i suoi detrattori con artati silenzi e vaghi “non so”. Alta la coscienza che il teatro non può essere professione, né abitudine bensì alterità, elusiva stranezza. Con questa coraggiosa semplicità il Castellucci nelle cui vene scorre, a nostro avviso, linfa misterica, è diventato il regista italiano più richiesto, premiato e famoso nel mondo. Eppure persino chi lo ama visceralmente lo guarda in tralice: Romeo è un pericolo à la Artaud per il teatro. Ma va beh, qualcuno bisogna pur che lo sia. Anche perché la straordinaria avventura del suo teatro-famiglia sembra ormai solo un bel ricordo.

  

Dal 2006, al termine di tre anni di tournée con gli undici episodi della Tragedia Endogonidia, gigantesca ricapitolazione del concetto di “tragico”, vissuta e patita nell’attualità e sotto la pressione del futuro, la Socìetas Raffaello Sanzio divenne solo Socìetas. Ogni membro della famiglia poté sviluppare un suo personale percorso di ricerca, pur restando sempre collegato nello spazioso e accogliente casato di Cesena e del Teatro Comandini. Chiara Guidi approfondì la sua preziosa ricerca sul canto/voce anche rivolta a un pubblico infantile. Il fratello Paolo continuò a essere attore. Claudia molto vicina a Romeo come dramaturg e scrittrice, ma soprattutto danzatrice e coreografa si risolse solo nel 2019 a trasformare una delle molteplici scuole da lei dirette, la Mòra in Compagnia. E ora dopo lo splendido debutto nella basilica bizantina di San Vitale per “Ravenna Festival”, porterà “La nuova abitudine”, sua ultima creazione, al Festival Kilowatt, attivo sino a fine luglio.

  

Un anno prima del debutto in Russia della “Nuova abitudine” Claudia ottenne il Leone d’Argento alla Biennale Danza, che Romeo diresse nella sezione teatro nel 2005 per poi ottenere otto anni dopo il Leone d’oro alla carriera. A lui lo snodo della Socìetas portò in dono l’incontro con l’opera lirica con un wagneriano Parsifal del 2011, seguito da altre sedici messinscena troppo amate a Salisburgo e nei maggiori teatri internazionali, mentre in Italia non gli è mai stato commissionato alcun melodramma; qualche astuta istituzione li ha accolti di riporto. La Triennale Teatro di Milano, dove è “Grand Invité” ha ad esempio mostrato la registrazione del suo commovente Orfeo ed Euridice, su musica di Gluck, presentato al Wiener Festwochen e al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, con doppi cantanti e una protagonista allettata in pseudocoma capace solo di muovere gli occhi. Ripresa da una telecamera, osservata da molto lontano da un Orfeo deambulante e infine giunto al suo  capezzale, questa Euridice muta e inferma non può tradire il suo ruolo, ma neppure Orfeo, ligio al comando divino, non la guarda negli occhi peraltro rapiti in un abisso estatico come se la Santa Teresa del Bernini fosse scesa di soppiatto nella pace solfurea dei Campi Elisi.

   

E i figli? Troppo piccoli durante gli anni del teatro-famiglia, hanno però intrapreso – tutti tranne uno – una carriera artistica cercando di elevare il più alto muro possibile tra loro e la parentela. Nel 2006, al momento di nominare il gruppo di cui Agata (danzatrice) e Demetrio (indispensabile musicista) sono elementi fissi accanto ad altri fratelli e cugini rotanti e affiliati, Teodora preferì la sardonica crudezza di William Faulkner anziché qualcosa di analogo alla formale beltà di Raffaello Sanzio che decenni prima aveva accarezzato la Socìetas. Per di più scelse Dewey Dell, la tragica e inconsapevole diciassettenne segretamente incinta nel terrigno e ghignante “Mentre morivo” dello scrittore americano. Bel coraggio, e comunque nome portafortuna nell’esordio con Á elle vide, e nella manciata di coreografie successive, tutte lontane dal mainstream, estranee a temi e preferenze giovanili correnti. Peccato che l’attuale ritorno al Sacre du printemps di Igor Stravinskij già agguantato da festival estivi e autunnali italiani e non (“TorinoDanza”, 20-21 settembre, “Aperto” dei Teatri di Reggio Emilia, 3 novembre) sia già stato oggetto alla Triennale Teatro di Milano, dove ha debuttato, di sbuffanti alzate di spalle. La ripresa del maggior scandalo teatrale del XX secolo (1913) a cura di Vaslav Nijinskij,  poté tramutatosi col tempo in una pepita d’oro per i maggiori coreografi – da Maurice Béjart a Pina Bausch – ma ormai suona come un inchino al mercato, o una cavalcata nel già noto. 

   

Ignorando i quadri della Russia pagana e il libretto di Stravinskij, ma non la sua musica, il Sacre dei Dewey Dell sembra il sequel di Sleep Technique. Una risposta alla caverna di Chauvet-Pont d’Ardèche, una loro pièce del 2017. Qui una grotta con una fonda cavità accoglie il dialogo con la preistoria di quell’homo sapiens sapiens autore delle meraviglie incise nella spelonca francese. Il nuovo Sacre lancia, invece, in una danza consona allo spessore tellurico della musica, lombrichi, scarabei dalle corazze chiare e disegnate: insetti non identificabili ma neri come la pece, oppure avvolti in manti amplissimi con ricche gorgiere e alti becchi dorati, o pistilli, in forma fallica. Sembrano le creature a noi consustanziali delineate in “Metamorfosi. Siamo un’unica sola vita” ( Einaudi, Torino, 2022) di Emanuele Coccia, il filosofo del momento, trasfigurate da fantasia e costumi più che raffinati. Vita e morte sono riciclabili (sempre Coccia): nessuna vergine sarà immolata per la rinascita della primavera, piuttosto un apicoltore, in un gruppo di colleghi riconoscibili dalle gabbie protettive sulla testa e in esplorazione nella grotta, trovato il becco dorato del fantasmagorico insetto dall’ampia gorgiera, verrà da questo risucchiato nel buco nero della spelonca. Fine di un Sacre di sicuro imprevedibile e non meno dell’inatteso avvicinamento della primogenita di Chiara e Romeo alle orme del padre.

   

Insediatasi in Germania per qualche anno, a Teodora hanno commissionato a Essen le coreografie di un Macbeth di Verdi che come noto contiene la preziosa danza delle tre Streghe. Neofita nell’opera lirica, la coreografa/danzatrice intende prepararsi con scrupolo al debutto del prossimo novembre. Ha letto e fatto leggere ai fratelli “Storia notturna. Una decifrazione del sabba”, di Carlo Ginzburg (Adelphi, 2017) e scoperto che le streghe inquisite compivano un doppio viaggio: fisico ma anche interiore, in spirito, proiettato verso l’estasi di un aldilà. Da questa futura coreografia d’opera ancora in fieri è nato I’ll do, I’ll do, I’ll do, un assolo di cui lei stessa è autrice e interprete, con la supervisione esterna di Agata e la musica originale del bravissimo Demetrio, al debutto a Santarcangelo ma già prenotato a Forlì e Bologna. In venticinque minuti la dinamica porta Teodora a scuotimenti del corpo e soprattutto del torso, tanto eccessivi da trasformare il suo volto in un ritratto vivente à la Francis Bacon. Loro, i figli teatranti della casata, chiamano quella scossa elettrica, sino allo spasmo e alle budella, già sperimentata con altri obiettivi nel loro Amleto, “la danza del No”, lontana dall’omonima espressione nipponica che porta questo titolo, ma semplicemente sintesi di una rotazione del capo portata all’eccesso, come per un diniego alla potenza. Potrebbe anche essere un ennesimo tentativo per sancire la distanza dall’ingombrante cognome che portano. Non crediamo sia necessario: gli adulti dell’attuale Socìetas non hanno mai espresso alcun giudizio sul loro lavoro, ma l’amore genitoriale e parentale non è mai venuto meno; quando si ritrovano a Cesena parlano di tutto fuorché di lavoro. Tuttavia questi figli d’arte hanno respirato sin da piccoli un’aria speciale e anche volendo, non possono riporre in un cassetto ricordi importanti come fossero i vecchi ninnoli di cattivo gusto delle nonne che non si buttano per rispetto. Inoltre, portano ovunque facciano spettacoli la loro prole come facevano i genitori: due pargoli Teodora, due Demetrio, uno Agata e sono già cinque…

Potrebbe rinascere un ennesimo teatro-famiglia?