Il caso
Contro lo stato che mette il copyright alle immagini dei beni culturali
Una faccenda complicata e pure poco redditizia. Ingolfare ulteriormente la macchina burocratica e rendere ancora più faticoso il lavoro culturale non ha senso. Liberalizzare è l'unica opzione giusta
Come si sa, c’è (1) un modo di pensare e di vivere di destra che dice: nulla deve esistere al di fuori dello Stato; e c’è (2) un altro modo che dice: fate tutti quanti il cazzo che vi pare. Sono princìpi in contraddizione, sì, ma di questo parleremo un’altra volta. Perché in queste settimane su questa rozza dicotomia si è tornati a dover riflettere: in aprile, infatti, il ministero della Cultura ha pubblicato delle linee guida per la “determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”. In parole semplici: quanto un privato deve pagare se vuole (a) usare spazi che possano qualificarsi come “bene culturale” oppure (b) riprodurre e usare immagini di ciò che si qualifica come “bene culturale” di appartenenza statale (la scansione di una pagina di manoscritto, una foto del Colosseo).
Ora, è troppo giusto che, se il cittadino X vuole affittare gli Uffizi per farci una sfilata di moda (è uno dei casi contemplati), paghi salato questo suo ghiribizzo. Ma, e qui sorge il problema, nel caso dei beni immateriali (le immagini), le cose sono meno nette, e la scelta del ministero di far pagare tutto – eliminando le gratuità previste sino ad oggi e introducendo un complicato sistema di coefficienti – pare a me, come a molti, particolarmente infelice.
Spieghiamoci con un esempio. Il decreto ministeriale dell’8 aprile 1994 – vigente fino al nuovo decreto in questione – stabiliva un’esenzione per tutti i periodici scientifici e per le monografie con tiratura entro le 2000 copie e vendute a un prezzo di copertina inferiore ai 70 euro. Lo studioso di Giotto che voleva pubblicare una riproduzione della Maestà di Ognissanti doveva pagarsi il fotografo, ma nient’altro doveva all’amministrazione se pubblicava il suo studio, corredato di foto, in una rivista scientifica o in un volume destinato a circolare tra gli esperti o gli aspiranti esperti (studenti). Ora non sarà più così: oltre a pagare il servizio di riproduzione, lo studioso (o l’editore che pubblica la rivista o il libro) dovrà calcolare l’importo dovuto all’amministrazione moltiplicando il numero delle immagini con due coefficienti, uno relativo alla destinazione d’uso delle immagini e uno alla tiratura della pubblicazione. E quindi lunghi tempi d’attesa, ingolfamento di una macchina burocratica spesso già in sofferenza; in più, nel caso di beni archivistici, marche da bollo da apporre alla richiesta (là dove sino a ieri bastava comunicare per e-mail la pubblicazione di un documento all’archivio competente: con sollievo del ricercatore e dell’archivista, che poteva evitare di sdoppiarsi in contabile); ma soprattutto, anche al di là di questo, un generale, incombente, defatigante senso d’impossibilità: perché ormai la comunicazione culturale passa soprattutto dalla rete, e chi riuscirà a capire quante volte la tale immagine è stata scaricata dal sito Y? E se pure si riuscisse a capirlo, quale impiegato dello stato avrà il tempo per calcolare la cifra da pagare, compilare la richiesta, inviarla tramite Pec all’interessato eccetera eccetera eccetera? Dovremo assumere dei sorveglianti ad acta, dei cerberi – anche questi pagati dal contribuente – che dicano se quella foto si può usare, e quando, e quante volte, e a che prezzo…
No, non va bene. Quello che chiamiamo “lavoro culturale” è già faticoso e difficile e poco pagato, e non ha senso renderlo ancora più ingrato, non ha senso moltiplicare le procedure, le scartoffie, le Pec. Soprattutto perché il gioco non vale la candela: sono pochi euro, per un’immane e abbastanza odiosa opera di controllo. No, nell’ambito dei beni immateriali l’opzione giusta (anche per un governo di destra che voglia essere serio) è la numero (2): liberalizzare.
Fotografate, riproducete, condividete. Quarant’anni fa, alle scuole medie, l’insegnante di musica s’indignò molto quando scoprì che nessuno di noi aveva la più vaga idea di come fosse fatto il colonnato di San Pietro. “Domani – ci disse – voglio che sul vostro quaderno ci sia incollata una foto del colonnato di San Pietro”. Fu un pomeriggio infernale, perché le immagini una volta (e parlo degli anni Ottanta, non del Medioevo) non c’erano. Si cercarono cartoline dal tabaccaio, ma eravamo a Torino, non a Roma. C’era la biblioteca di quartiere: ma lì i libri d’arte non erano fotocopiabili. Si sfogliarono i pochi libri casalinghi, ma senza successo. Ma era un’epoca doverista, e arrendersi non contava tra le opzioni. C’era lì l’Enciclopedia Motta, che mia nonna aveva comprato a fascicoli settimanali e che nessuno apriva mai. Alla voce “Roma” c’era appunto una foto del colonnato di San Pietro; la ritagliai e la incollai al quaderno. Il giorno dopo entrai in classe tutto fiero del mio colpo d’ingegno e del sacrificio, ma l’insegnante si dimenticò di controllare i quaderni.
Detto da un vostro coetaneo che ha molto sofferto nell’Età della Penuria e che vorrebbe che chi fa ricerca e valorizza il nostro patrimonio godesse gratuitamente di questa Età dell’Abbondanza: patres conscripti, siate saggi e liberali, e riscrivete meglio il dm dell’11 aprile 2023.