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Come scegliere i nuovi direttori dei musei: consigli a Sangiuliano

Maurizio Crippa

Il ministro ha potenziato (da 44 a 60) i grandi musei autonomi. Bene. Ma rischia di pasticciare sulla commissione che valuterà chi deve guidarli. Nulla di irregolare, molta gnagnera di opposizione. Ma è proprio necessario esporsi a una contestazione su una prassi in cui basterebbe seguire il passato?

Spegnete per un po’ la gnagnera polemica del governo “senza cultura” (e se ce l’ha è sovranista e centripeta), tutto il potere a noi del giro della destra. Due giorni fa il ministero della Cultura ha approvato una importante riorganizzazione che porta da 44 a 60 il numero di musei, parchi archeologici e altri siti culturali nazionali dotati di “autonomia speciale”. Musei “first class”, insomma. Il ministro Gennaro Sangiuliano, nell’occasione, ha fatto professione di solida visione autonomistica e decentrata, che poi significherebbe semplicemente moderna e adeguata ai tempi: “Essere autonomi significa avere una gestione manageriale che permette decisioni rapide nell’ottica della tutela e della promozione delle strutture”, rilanciando in più “il valore di grandi siti culturali italiani”. Tra i nuovi musei e siti, le Residenze reali sabaude, i Musei archeologici nazionali di Venezia e della Laguna, i Musei nazionali di Ravenna, il Pantheon e Castel Sant’Angelo e via magnificando. Ma come spesso accade a questo governo, e non soltanto al ministro Sangiuliano, a ogni buon passo in avanti corrisponde un (evitabilissimo) inciampo contrario.

Così scoppia una mezza protesta accademica e protocollare, destinata probabilmente a poco ma non priva di alcuni fondamenti, a proposito della Commissione di valutazione che dovrà vagliare i curricula dei candidati alla direzione dei maggiori musei italiani – dagli  Uffizi al Real Bosco di Capodimonte a Brera – in scadenza naturale in autunno. Come sempre con il “governo delle destre”, c’è chi straparla di colpi di mano e occupazioni indebite, ma la cosa è più piana, e forse appianabile, diversa comunque dalla vicenda del Centro sperimentale di cinematografia. Secondo le leggi vigenti, e i regolamenti perfezionati all’epoca della riforma Franceschini (2015) a selezionare le candidature in base ai curricula e poi a esaminare i pretendenti (saranno oltre il centinaio) è una apposita commissione di cinque membri nominata dal ministero, che alla fine produrrà delle “terne” per ogni museo o direzione; da queste il ministro e il direttore generale dei Musei (Massimo Osanna) sceglieranno i direttori. Conosciuti i nomi dei cinque commissari, ecco che la Consulta universitaria per la Storia dell’arte e la Società italiana di Storia della critica d’arte – consorzi accademici dotati di una loro relativa e particulare sfera di influenza – hanno alzato gli scudi con un appello pubblico: la cinquina non va bene. C’è solo una storica dell’arte (fatto definito “francamente increscioso”), e cioè Daniela Porro, sovrintendente per l’Archeologia di Roma, e soprattutto ci sono ben due funzionari del ministero – vale a dire due commissari che potrebbero essere condizionati dal loro capo politico. E addio alla terzietà. La polemica tra gli addetti si è subito trasformata, nella vox populi, nel solito “vogliono piazzare qualcuno dei loro”. E’ vero, non è vero? Probabilmente non è vero. Basterebbe notare che i regolamenti non sono stati stravolti né scavalcati. Fra i cinque commissari ci sono in ogni caso tre esperti di archeologia (Sangiuliano ha un debole per la conservazione) e il sentore di una certa difesa corporativa dell’accademia non manca – come del resto in passato: è l’eterna idea che gli storici e i critici d’arte debbano essere al governo della direzione dei musei. Idea invero disfunzionale, per chiunque sappia cosa sia e come debba funzionare un grande museo che voglia essere protagonista nella contemporaneità del sistema museale globale. Non ci si può dimenticare, ad esempio, delle polemiche di quanti nel 2015 denunciavano la “commercializzazione” della cultura, solo perché alle direzioni erano arrivati validissimi curatori-manager non di provenienza accademica.
Ma, d’altra parte, basta dare uno sguardo alla composizione della prima commissione del 2015 (quella che nominò appunto gli Eike Schmidt e i James Bradburne) per riconoscere che qualcosa non funziona. Quella era presieduta da una personalità come Paolo Baratta, il manager culturale che ha forgiato quel gioiello globale che è la Biennale di Venezia, dal direttore della National Gallery di Londra Nichoals Perry, dal rettore del Wissenschaftskolleg di Belino Luca Giuliani. C’era Claudia Ferrazzi dell’Accademia di Francia e il giurista, grande conoscitore della riforma, Lorenzo Casini. Un team di alto livello e di chiara apertura internazionale. Questa volta, al di là dei nomi ovviamente degnissimi, manca completamente il livello internazionale. Marina Brogi è docente di Economia e tecnica dei mercati finanziari, Carmela Capaldi insegna Archeologia classica a Napoli. Luigi La Rocca, direttore generale della direzione Archeologia Belle Arti e Paesaggio, è al pari di Daniela Porro ottimo studioso ma, appunto, è un funzionario del ministero. Mentre alla presidenza è stato chiamato Francesco Di Ciommo, avvocato cassazionista e consigliere di amministrazione di Cdp.

E’ ovvio che i due problemi segnalati dall’appello siano reali: ci sono due funzionari che, paradossalmente, potrebbero trovarsi a valutare colleghi o sottoposti. Il secondo punto è reale ma più sfumato: si può obiettare che oltre a uno storico servirebbe un manager della cultura magari d’esperienza internazionale. Ovviamente non c’è nulla di illegale nelle scelte del ministero, ma un consiglio non richiesto lo si può dare: perché esporsi al rischio di una contestazioni, o di ricorsi, quando sarebbe bastato ponderare meglio le nomine? E soprattutto, nel momento in cui si fa un passo giusto verso la modernizzazione del sistema, perché offrire il fianco ai soliti sospetti di manovrare col favore delle tenebre?
 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"