i libri degli altri/4
“Sono una teatrante, la pagina la devo sentire”. Andrée Ruth Shammah e il bisogno di leggere a voce alta
La cofondatrice del Franco Parenti a Milano ci parla del suo rapporto con la letteratura ed è un fiume in piena. Un colloquio tra Kafka e l’ebraismo, Stendhal e l’amicizia con Severino
Per tutta l’estate, ogni settimana sul Foglio trovate l’appuntamento di Marco Archetti con un “bibliomane” diverso. Interviste a intellettuali, professori e scrittori per farci raccontare i libri che li hanno formati e appassionati. L’11 luglio abbiamo pubblicato “Libri che pensano”, intervista al filosofo Umberto Curi, il 18 “Alla ricerca di Proust”, alla francesista Mariolina Bertini, il 25 “Il romanzo della scienza”, al matematico Alfio Quarteroni.
Non è mai il momento di leggere Proust!”.
Un memorabile aforisma sfornato all’impronta e via, ci si tuffa di testa nella vita caotica e creativa di Andrée Ruth Shammah, multiforme e indefessa alma mater del teatro Franco Parenti fu Salone Pier Lombardo – lo fondò in un milanesissimo e pionieristico 1972 insieme a Franco Parenti, Dante Isella, Giovanni Testori e Gian Maurizio Fercioni – che parla seduta (per così dire) al centro di un nido posato tra i coppi di Brera, il piccolo terrazzo al terzo piano dell’appartamento in cui vive. Produttrice di realtà artistiche mentre discute col commercialista, amanuense che firma un articolo per il Corriere (scrive sempre a penna, scrivania inagibile causa libri e portafotografie) e intanto chiama l’idraulico (“Ciao, scusa, hai tempo di venire? Ho scoperto che la vaschetta del terrazzo non scarica e poi mi arrivano le zanzare”), amante della vita che si vive perché la vita “cammina e passa” e bisogna camminare e passare come cammina e passa il teatro, regina senza amici (estranei a quel mondo) e senza tempo libero per la nostalgia, Andrée è una donna libera, così libera che una ventina di anni fa, in una leggendaria intervista a Claudio Sabelli Fioretti per il Corriere della Sera, disse: “Nel ’68, tra Capanna e Grassi, io ho scelto Grassi” e poi tacciò i teatranti filosocialisti – tutti – di voltagabbanesimo. Stanchissima instancabile che esce quasi tutte le sere (“le rare volte in cui non ho niente da fare, non è che non ho niente da fare: apro un libro e ho subito da fare”), vive in un ciclone di telefoni che squillano (“Sì? Ciao, ho letto, sì, ho letto il libro di Gila Almagor, molto bello, mi è piaciuto perché si sente che lei è un’attrice, quindi va bene, la presentiamo, va benissimo, io posso anche leggere una pagina”) e in un tornado di messaggi, progetti, libri a sfare e comodini a pieno carico (“Fabrizio Gifuni mi ha consigliato Roberto Bolaño: Tra parentesi l’ho già preso e me lo leggo di sicuro”). Vacanze poche, ma buone. “Se guarisco dal dolore a questa vertebra andrò in Irlanda con Carlo Cecchi. Ma poi, guardiamoci negli occhi, di cosa crede che parleremo per tutto il tempo?”.
Libri. Libri. Libri. E teatro. “Carlo a novembre verrà da me al Parenti, farà La leggenda del santo bevitore”. Ma alla fine del bevitore non si parlerà, il terrazzo verrà abbandonato in favore della poltrona cremisi di uno studio comodo e luminoso, e a Joseph Roth si accennerà per poi volar via e parlar d’altro e altro ancora – ogni due frasi un aforisma memorabile sfornato con noncuranza, buttato lì come se nulla fosse. Perché “tutto fa parte della vita”, come dice Andrée. E tutto significa proprio tutto: un lavandino otturato e l’amico Emanuele Severino, il suo colon irritabile (con l’enterologo che, mentre le scrive su Whatsapp, le consiglia La storia di san Michele di Axel Munthe) e i suoi amati pannelli di Niedermayr, le fasi della vita e gli interessi letterari ciclici, una vertebra fratturata e Franco Parenti, attore di un progetto con la sua regia che non fecero in tempo a realizzare su Il processo di Kafka, “un romanzo che nasconde una commedia. Ma purtroppo Franco morì. Doveva interpretare Joseph K.”. E poi progetti di qua e progetti di là, ubiquità febbrili, “mai riposarsi sulle forme”, i settantacinque anni come “una svolta della vita, una grande opportunità”, un libro da scrivere (già pronto il quadernone, copertina rigida con sopra il nome Andrée), appuntamenti che saltano e altri che si fissano (“farò un festival di cultura israeliana, loro sono molto coraggiosi sulla scena e anche interessanti, del resto hanno tanti strati di culture diverse”), forza di gravità e forza delle parole che zampillano a getto shammahniano, cioè continuo. “Io penso parlando, sa? I pensieri mi vengono così. E ovviamente scrivo nello stesso modo: la penna scrive delle cose e così, man mano, io so cosa sto scrivendo”.
Rewind. Dicevamo: Proust. “Già, Proust. Lessi La strada di Swann molti anni fa, poi non ho mai avuto tempo di andare avanti a leggere il resto. E pensare che c’è perfino chi lo ha riletto”. In effetti bisognerebbe disimpegnare almeno un quadrimestre. “Io leggo molto, ma sa dove, soprattutto? Nella mia casa di campagna. Là non prende il telefono e passo tutta la giornata a letto a leggere, con le finestre spalancate. Leggo ad alta voce: sono una teatrante, la pagina la devo sentire”. Il primo libro che affiora alla memoria? “Il piccolo principe”, risponde sbirciando gli appunti presi sul telefonino per prepararsi questa conversazione, con l’aria di chi sospetta deluderà il suo interlocutore. “Lei magari non sarà d’accordo, ma perché vergognarsi? Il mio primo incontro con la letteratura è stato questo. E’ un libro più complesso di quel che sembra, pensi solo al finale. In casa avevamo addirittura un disco: Gérard Philipe legge Il piccolo principe e mia madre ce lo metteva molto spesso. Ricordo di aver sofferto quando ho scoperto che in italiano ‘la rose’ – femminile – diventava ‘il fiore’. Un tradimento! Quando il piccolo principe dice che ha sofferto per la sua rose, che vuole proteggerla dal vento e che credeva fosse l’unica al mondo… Dai, il fiore che vuol dire? Non è accettabile, non va bene! E dunque diciamo che mi sono arrabbiata con la versione italiana. Poi, al di là di questo, è stato molto bello scoprire tutto il mondo di Antoine de Saint-Exupéry, che tra l’altro è un personaggio pazzesco, con la sua morte misteriosa, il suo aereo sparito e ritrovato solo nel 2004. E sempre per restare nel periodo dell’adolescenza, ecco l’altra tappa obbligata per tutti gli adolescenti: Hermann Hesse, Siddharta. L’idea di partire, la spiritualità… E apparì l’India”. Pausa. Sguardo di sguincio, a un ramo di libreria. “C’è un po’ di disordine? Ma se fosse venuto nel mio ufficio a teatro sarebbe stato anche peggio”.
Uno scaffale, a volo: Tullio Avoledo, Samuel Beckett, l’intera raccolta dei pittori del Corriere, Lawrence Ferlinghetti, Meir Shalev, Oscar Wilde, Etgar Keret, Peter Brook. “In teatro ricevo anche i libri che devo presentare, dunque si immagini… Però grazie a queste presentazioni si fanno scoperte inattese. Spesso si conoscono alcune persone ma non ci si bada, non si arriva a immaginare che dietro quell’uomo ci sia un grande scrittore. Tra l’altro, se lo so prima, io non li incontro. Mai incontrare gli scrittori! Certo, a meno che non siano dei monumenti: mettiamo che arrivi Borges, che fai, non incontri Borges? Tornando ai libri scoperti per lavoro, a me ha colpito molto Alain Elkann. Le sembrerà strano, ma certi suoi romanzi piccoli, brevi, mi danno un senso molto profondo della sua interiorità, della sua fragilità. Penso a quest’uomo, travolto dai cognomi, che mi ha commosso, per esempio col romanzo Il padre francese. Il fatto che abbia voluto dare ai figli, che avevano tutto, una cosa che non avevano: il suo ebraismo. Da allora leggo i suoi libri con una grande attenzione, e sì che è un autore che forse non avrei scelto, girando in libreria. Ultimamente i libri mi capitano tutti così. Da un lato è molto bello, dall’altro il meccanismo ha un po’ ridimensionato la mia capacità di scegliere”. Mai avuto un angelo del Consiglio letterario? “Certo, quando c’era la Milano Libri di via Verdi, una libreria che ha fatto la storia di Milano. Era Annamaria Gandini: io entravo e le chiedevo cosa avesse per me. Lei mi consegnava un pacco di libri e io mi fidavo. Annamaria mi ha fatto passare le estati più belle della mia vita”. Ma tornando all’origine? (Il discorso procede senza linearità, per improvvisazione puntiforme.) “… non potrei non citarle Le Cid di Corneille, scoperto a scuola. Frequentavo quella francese. Ricordo che si veniva chiamati e ci si piazzava accanto all’insegnante. L’interrogazione consisteva nell’esporre agli altri studenti quello che sapevi. Io, sul Cid, lo ricordo perfettamente, a un certo punto cominciai a recitare: ‘Mon bras qui tant de fois a sauvé cet empire…’”. E recita davvero, è quasi un canto. “Ecco, a ripensarci adesso, sebbene non mi abbia influenzato intellettualmente, devo dire che Corneille mi ha rivelato a me stessa. E poi, certo, Stendhal: Il rosso e il nero e La certosa di Parma mi hanno letteralmente nutrito. E Balzac. Molto scioccante fu l’incontro con la poesia di Baudelaire. Insomma, questo è il mio bagaglio. All’esame sa come facevano? Ti chiedevano all’impronta di imbastire un confronto tra un poeta e un altro. Io non ci riuscivo granché, non ci riuscirei nemmeno adesso. Anche perché, quando leggo un romanzo, non lo leggo da critica. E’ come quando vado al cinema. Col teatro, idem. Non sono una spettatrice o una lettrice che si pone il problema della chiave di lettura. Io mi metto lì e mi faccio travolgere. E’ stata anche la mia forza come regista: non innamorarmi di qualcosa per il fatto che sono io a farlo, ma immedesimarmi nello spettatore. Non mi costa alcuno sforzo, perché è così che io mi sento: una spettatrice. Se mi annoio, non supero la noia. Nemmeno coi romanzi. Poi però a volte mi dico: eri annoiata perché stavi pensando ad altro, non è detto che il libro fosse davvero noioso. E poi, diciamocela tutta, sono cosciente di una cosa: se leggo sdraiata sotto la mia tettoia in campagna o al mare, sapendo cioè che non ho nessun altro impegno, quel tempo non è mai uguale al tempo di Milano”.
E il tempo di Milano è un tempo sempre gremito. “Sempre. C’è stato un periodo in cui frequentavo Emanuele Severino. Gli volevo molto bene. Vicino a casa sua a Brescia c’era un fiorista splendido. Be’, un giorno arrivo lì e mi mostrano dei nidi: al parco erano caduti dei nidi di uccello e li avevano raccolti. Così ne ho comprato uno, l’ho regalato a Emanuele e lui impazzì letteralmente di gioia. Aveva visto in questo nido un valore simbolico molto forte. Quando tornai, la volta dopo era ancora lì, posato sul pianoforte in studio. Emanuele è stato un mio grande amico, avevo una tale simpatia per lui… Certe volte mi veniva da sorridere al solo pensare che credesse veramente a quello che scriveva, e cioè che non è vero che noi siamo qui, che siamo contemporaneamente in un altro posto, che niente finisce. Però è stato una grande guida, per me, all’interpretazione del pensiero greco”. Un tempo di Maestri. “Quando è morto mio padre è nata in me la voglia di definirmi ebrea. E di capire l’ebraismo. Allora ho realizzato un festival di cultura ebraica e mi sono imbattuta in Emmanuel Lévinas. Ricordo una sua conferenza bellissima sull’Altro, che mia sorella Colette traduceva. E’ stato un importante riferimento anche per Haim Baharier, mio maestro e carissimo amico. Mi ha dato, più di altri, lo spessore e la fascinazione di una mente filosofica al lavoro sulla cultura ebraica”. Tema infinito. “In letteratura, per esempio, ho sempre amato i Singer. Tutti e tre, sorella compresa. L’ultimo di Isaac che ha pubblicato Adelphi, Max e Flora, è splendido. Si legge da solo. Mi è successo anche con Giobbe di Joseph Roth: lo facemmo a teatro, per cinque settimane, con Roberto Anglisani, uno straordinario raccontatore. Il filone della cultura ebraica è stato inevitabile. Lo studio del Libro, della Parola… Faccio anche tre festival di cultura ebraica. Come sa, nell’ebraismo la figurazione dell’immagine è vietata. Haim Baharier dice che la nostra arte visiva – senta che meraviglia – è il disegno degli spazi bianchi tra le parole del Talmud o della Torah. Io leggo tutto quello che lui scrive, sempre. Adesso presenteremo un suo libro che si intitola Le dieci parole”.
I ricordi di una vita, di una famiglia. “Noi veniamo da Aleppo. Siamo scappati, ma i nostri genitori non ci hanno raccontato molto. Speravano che saremmo cresciuti in un mondo che non conoscesse queste tragedie”. La sorella Colette, patita di Kafka. “Che anch’io amo molto, ma il suo racconto Josefine la cantante, ovvero il popolo dei topi mi ha impedito di diventare vorace: l’ho letto e ha occupato tantissimo spazio, dentro di me. Per anni ho letto e riletto solo quello”. E poi l’amore infinito per il teatro. “Che si rinnova in continuazione: finisce uno spettacolo e ne comincia un altro. Come il mandala che il monaco buddista distrugge dopo averci lavorato per mesi. Questa è la forza, la grande umiltà del teatro. E così si deve stare davanti alla cultura: resta quel che resta, dopo che si è dimenticato tutto”.