allo sferisterio
La Carmen a Macerata, trionfo dell'eros (con la benedizione del vescovo)
L'opera diretta dal giovane e talentuossimo Daniele Menghini dimostra come l'amore passionale sia una specie di preghiera. E infatti piace anche alle istituzioni ecclesiastiche della città
C’è un momento potente e commovente nella nuova Carmen allo Sferisterio di Macerata, regia del giovane talentuosissimo Daniele Menghini, ed è quando lei, nell’Havanaise, per un momento prende in braccio un bebè vestito da Arlecchino. L’Arlecchino è l’idea e il simbolo di questo spettacolo: ma è l’Arlecchino originale, l’ur-Arlecchino con il corno sulla maschera, comico e diabolico insieme, l’Alichino che Dante spedisce all’Inferno. Emblema, dunque, dell’eros rivoluzionario e anarchico, dionisiaco e demoniaco di Carmen che si contrappone al rassicurante ordine sentimentale della società, con i suoi José così inquadrati e virili ma poi sempre lì a parlare di mammà. I ribelli, gli anticonformisti, i Don Giovanni (Carmen è il Don Giovanni dell’Ottocento, ma ancora più destabilizzante perché donna, proletaria e zingara) sono quindi vestiti da Nika Campisi con delle gabbane multicolori che spiccano fra le nere uniformi della sbirraglia: taverne di malaffare e accampamenti di contrabbandieri assumono una vaga aura tiepolesca e picara, alla fine nemmeno così abusiva.
I cattivi registi non hanno idee; i registi bravi le hanno belle; i registi bravi e giovani come Menghini le hanno belle ma ne hanno troppe, alcune riservate ai solutori più che abili, modello Settimana enigmistica, tipo l’Escamillo-San Giorgio che trafigge un toro-drago come arcaico sacrificio rituale. E anche i monologhi in prosa dell’Arlecchina che introduce gli atti sono suggestivi ma pleonastici (ha già provveduto Bizet, con i suoi entracte incantati). Però Menghini ha una tecnica formidabile, perché sa far recitare i cantanti e sa muovere le masse, e anche una certa furbizia. Siamo pur sempre allo Sferisterio, d’estate, all’aperto, e un po’ di spettacolarità cheap ci vuole, quindi forza con fuochi (d’artificio) e fiamme che a noialtri coeurs simples piacciono sempre tanto. Alla fine, lo spettacolo risulta coerente, forte e intellegibile: in questi tempi di deliri e pagliacciate contro le regie “moderne” ci voleva proprio.
La solita orrida versione Guiraud con l’aggravante di tagli e pasticci vari è diretta con olimpica e impeccabile indifferenza da Donato Renzetti, che però è nato con la bacchetta in mano e lo dimostra in alcuni accompagnamenti meravigliosi, come nella scena fra José e Micaëla dove Bizet scrive il più bel duetto di Gounod (anche il giorno dopo, alla Messa da Requiem con i complessi del Comunale di Bologna, contrappuntavano un Dies irae fiacco un Recordare e un Lacrymosa di una bellezza tersa e struggente, appunto da cielo tiepolesco). Bravissima Ketevan Kemoklidze, una Carmen sensuale ma leggera, volage, capricciosa, perfino ironica, non il solito puttanone; il tenore egiziano, Ragaa Eldin, canta bene ma è inerte; Roberta Mantegna e Fabrizio Beggi, Micaëla ed Escamillo, sono inappuntabili come tutti gli ottimi comprimari; il pubblico applaude, e molto.
A Macerata, paradiso di antiche gentilezze e incanti arcitaliani, non solo gastronomici, hanno anche un vescovo in gamba, monsignor Nazzareno Marconi, che per l’occasione ha mandato ai giornali una lettera dove spiega, testuale, “perché il vescovo va a vedere la Carmen” citando la Deus caritas est del nostro Ratzinger che, “contro l’ideale di un amore umano disinfettato, asettico, dominato dall’interesse e dal calcolo, osa dire che nel vero amore c’è anche l’eros, la passione”. Così la gloriosa, libertaria, liberatoria potenza di eros si può incarnare in un baby Arlecchino, “enfant de Bohème” cullato da chi, in nome della libertà, è perfino disposto a morire. Chi l’avrebbe detto, che Carmen potesse essere anche una preghiera?