Napoli, 4 agosto 1943. Quante lacrime e canzoni per Santa Chiara bombardata dagli americani
“Dove sta Zazà?” è la marcetta che virava in allegretto le cupezze angosciose. Un nomignolo affibbiato alle “signorine” che se la intendevano con gli americani
Non bastava la scrittura di Eduardo e Malaparte a raccontare quella distruzione, ci voleva la musica. Scugnizzi, prostitute, soldati innamorati: ecco le melodie che hanno accompagnato il dolore
Le tenebre, giunte dal Mediterraneo, avvolsero la città odiata dal nemico. Fu Napoli quel giorno la Gerusalemme che “la strana nuvola”, composta da più di quattrocento B-17 Flying Fortress americani, doveva sprofondare “come se non fosse mai esistita”. “Spaventando tutti gli esseri viventi”. Se rubiamo per l’incipit al Maestro e Margherita di Bulgakov è perché le memorie viventi di quell’incubo, che il 4 agosto scorso ha fatto ottant’anni, si sono sfarinate decade su decade e mese dopo mese con la progressiva rarefazione dei testimoni di cui avremmo dovuto ascoltare con più attenzione i racconti. Spesso invece fummo distratti dalla nostra gioventù senza bombe. Così oggi il ricordo del 4 agosto ’43 è costituito da frammenti disordinati, miriadi di schegge ricomposte per servire all’ordine apparente e necessario dei libri di storia, dei romanzi e di articoli come questo, che sta però per proseguire a orecchio. E’ confessato subito il motivo: non ci fidiamo più degli occhi.
Le memorie viventi di quell’incubo si sono sfarinate con la progressiva rarefazione dei testimoni. Dovevamo ascoltare con più attenzione i racconti
A chi oggi dalla collina vomerese abbraccia il panorama urbano, il tetto verde della basilica di Santa Chiara risulta elemento evidente per l’ineludibilità della mole, distesa quietamente come se niente fosse mai accaduto. Si mostra così dal 4 agosto 1953, data in cui dopo un decennio esatto di ricostruzione venne restituito al mondo il trecentesco monumento voluto da Roberto d’Angiò e dalla regina Sancia, impreziosito dagli affreschi giotteschi e divenuto quindi il pantheon dei Borbone. I bombardamenti del ’43 avevano raso al suolo Santa Chiara tranne alcuni muri e il nucleo centrale dell’altare maggiore, che quella sera si stagliò nero e fumante tra le rovine del tetto e delle colonne. Per constatare la portata del disastro basta riguardare le fotografie, rileggere le cronache o rientrare nell’algida nudità del tempio però a occhi socchiusi, per immaginarlo quando era barocco e carico di secoli d’arte, ignorando le guide consolatorie secondo cui la ricostruzione lo avrebbe riportato alla primitiva austerità.
La distruzione di Santa Chiara, senza alcuno scopo strategico giusto o sbagliato (come fu invece per l’abbazia di Monte Cassino), rappresentò il simbolo più traumatico della Seconda guerra mondiale a Napoli. Ci fu un prima e un dopo quel 4 di agosto. Saturi di orrore, desiderosi di speranza, parchi nelle illusioni, ansiosi di rivivere, quando i napoletani ripresero a produrre musica consegnarono al successo una canzone che a quel prima e a quel dopo era ispirata: Munasterio ’e Santa Chiara.
Le parole di Michele Galdieri e la melodia di Alberto Barberis raccontano di chi, in un’angosciosa lontananza, sentiva dire quanto la guerra avesse cambiato la città e temeva perciò di tornarci. Più che la devastazione materiale spaventava il cambiamento d’indole tra la Napoli “comm’era” e “comm’è”: “Tutt’a ricchezza ’e Napule… era… ’o core! / Dice… ch’a perzo pure chillu là!”. Emblema del disfacimento morale fu la dilagante prostituzione per sussistenza o per sfrenato vitalismo dopo la tragedia, sicché “’na femmena nnucente – dice ’a ggente – nun c’è cchiù”.
“Munasterio ’e Santa Chiara”: il racconto di chi sentiva dire quanto la guerra avesse cambiato la città e temeva perciò di tornarci
Mai come in quel periodo la cronaca napoletana poteva essere cantata anziché scritta. Mai come allora la realtà s’intercettava nella dimensione uditiva. Trascorsero, dopo il bombardamento di Santa Chiara, altre settimane di passione scandite da nuove incursioni aeree: le più spietate quelle del 6 e 8 settembre, il giorno stesso in cui Badoglio annunciava l’armistizio. Da quel momento i tedeschi, bonari residenti che beneficiavano del Golfo come convalescenziario per le truppe ferite in Africa, si tramutarono in feroci occupanti suscitando la ribellione delle Quattro Giornate, dal 27 al 30 settembre. Il primo ottobre, i reparti della Quinta Armata alleata entravano in città e dopo qualche mese una canzone, diventata celeberrima, ne descriveva alcune conseguenze: Tammurriata nera, versi di Edoardo Nicolardi e musica di E. A. Mario (già autore della solenne Leggenda del Piave, una guerra prima) raccontava con ironia agli antipodi del melanconico Munasterio ’e Santa Chiara la disinvoltura delle “signorine” verso i soldati di colore, che spesso ebbe per frutto “’nu criaturo niro niro comm’a cché” (e hai voglia a battezzarlo Peppe o Ciro).
“Una nuova Napoli: pratica eppur materna, devozionale e blasfema, aggressiva e presepiale”. Scopriva le Lucky Strike e il boogie woogie
Ricorda Roberto De Simone, testimone bambino di quegli anni, in Satyricon a Napoli ’44: “Era una nuova Napoli: pratica eppur materna, devozionale e blasfema, aggressiva e presepiale, trasgressiva e tribale, ligia al potere ma di fondo anarchica”. Scopriva le Lucky Strike, il boogie woogie ma riscopriva la tarantella, quella che per Peppino Fiorelli e il musicista Nicola Valente doveva rappresentare un inno alla ripresa della vita malgrado le sferzate della morte.
Eppure, Simmo ’e Napule paisà è rimasta tra le canzoni più fraintese per via del ritornello passato in proverbio: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… / Chi ha dato, ha dato, ha dato… / Scurdammoce ’o passato…”. Diventò nei decenni successivi quasi lo slogan della superficialità partenopea a causa di un distratto ascolto del testo, in cui invece il cocchiere che scarrozza due innamorati transita dove sorgeva casa sua e viveva la sua famiglia, lamentando di avere perso sotto le bombe l’una e l’altra. Però, malgrado tutto, il sole e il mare nessuno li ha annientati e sono tutto quel che resta. Morire o consolarsene.
Oggi direbbero: che resilienza. Ma oggi lo dicono per molto meno.
“Simmo ’e Napule paisà” è rimasta tra le canzoni più fraintese: “Scurdammoce ’o passato…”. Ma la superficialità partenopea non c’entra
Come possono queste scaglie di memoria, frammenti rincollati per la Storia, per un articolo o un romanzo, ridare le parole giuste ai vivi e ai morti. Non bastò Eduardo con Napoli milionaria a ricucire assieme veglie, incubi e sogni della “nottata”. Né Malaparte, che con La pelle si prese gli immancabili applausi ai virtuosi della penna quando plasmano pagine proprie sui dolori altrui. E molti ancora raccontarono della città pezzente, “ch’a perzo ’o core” con la vendita dei corpi e con la borsa nera, mentre gli storici hanno spiegato ragionevolmente lo sviluppo dell’illegalità a Forcella e gli effetti del soggiorno napoletano del capo mafioso Lucky Luciano. Sunteggiò meglio di tutti Domenico Rea, in tre righe, l’arricchimento dei profittatori in una Breve storia del contrabbando: “Resterà il fatto che Napoli sempre listata di bluastri rigagnoli fangosi, dal 1943 al 1947 li ebbe d’oro. Furono anni felici, diventati materia di sogno”. Furono polvere di stelle, s’intende, per i furbi; per i fessi furono polvere di piselli, surrogato di caffè e sonni senza casa sui pianerottoli di Scala a San Potito, cui Luigi Incoronato intitolò l’omonimo romanzo breve. La sua cosa più bella. Che non si può rileggere senza deprimersi e intuire perché l’autore si sarebbe ucciso, come s’uccisero il matematico Renato Caccioppoli e la giornalista Francesca Spada. Un dopoguerra punteggiato di suicidi intellettuali per quanti non “scurdavano ’o passato”.
Come bombe a scoppio ritardato. Bombe difettose.
“Io non applaudii gli americani al loro arrivo”, diceva il partigiano Antonio Amoretti, “perché li ritenevo responsabili di un atto terroristico”
Quel 4 agosto ce ne fu una che procurò strage per questo, perché era fallata e non esplose al primo impatto con un palazzo di piazza Mario Pagano, ma ne trapassò tutti i piani giù giù fino al ricovero dove s’erano stipate, pensando di mettersi al sicuro, tot persone. Tot: perché furono 470 i cadaveri recuperati nei giorni successivi ma a brandelli, di alcuni per esempio restava un piede e i congiunti riconoscevano la vittima dalla scarpa; di altri si seppe o si suppose che erano entrati nel ricovero però non si trovarono mai più. Lo avrebbe narrato, decine di volte, l’ultimo partigiano napoletano Antonio Amoretti, morto il 22 dicembre scorso, che allora aveva sedici anni e frequentava la scuola dove venivano ammucchiate dai pompieri le salme del bombardamento decomposte subito dal caldo agostano. “Io perciò non applaudii gli americani al loro arrivo”, ripeteva Amoretti, “perché li ritenevo responsabili di un atto terroristico”. Lui si era rifugiato, il 4, poco distante dalla basilica di Santa Chiara, nel ricovero di Palazzo Corigliano in piazza San Domenico Maggiore, da dove per i detriti degli edifici crollati riuscì a uscire con difficoltà. (Oggi che la memoria s’è dilavata in Storia, i turisti visitano con la guida il ricovero antiaereo nei paraggi e possono soltanto immaginare, come chi nel Colosseo pensa ai leoni e ai cristiani). Quel giorno anche le orecchie ingannarono i napoletani. Sono dettagli che riaffiorano dalle carte: Antonietta Leone, impiegata presso un laboratorio fotografico, tenne un diario di tutti i bombardamenti e gli allarmi aerei dal 14 giugno 1940 al 27 novembre 1943, incluse quindi le incursioni della Luftwaffe. Grazie a lei i posteri possono sapere che il 4 agosto la “strana nuvola” dei B-17 oscurò il cielo cinque volte facendo la prima comparsa alle tre del mattino, ma dalla terza ondata le sirene antiaeree non suonarono più il cessato allarme, appuntò Antonietta.
Non era sua suggestione.
La facoltà uditiva della giovane diarista era rimasta intatta. La conferma si ricava dal volume I cento bombardamenti di Napoli, che il giornalista Aldo Stefanile pubblicò nel 1968: “Le distruzioni furono così vaste che fu interrotto il servizio telefonico, fu sospeso il servizio tranviario per l’impraticabilità delle strade, fu fermata l’erogazione dell’acqua, fu sospesa l’energia elettrica. Mute le sirene, i giornali del 5 annunziarono che, fino a nuova disposizione, l’allarme sarebbe stato dato con tre colpi di cannone”. Ernesto Grassi sul Mattino commentò a caldo, piangendo sulle macerie della basilica: “Guardate nel futuro… Sarà, questa, Santa Chiara perduta. Napoli vivrà, canterà, esploderà talvolta nel suo riso fulminante di simpatia, sempre un po’ folle. Ma talvolta si spegnerà nella meditazione: la ferita è stata profonda, rovente, inguaribile e non si lascerà dimenticare mai più”. La prima pagina del quotidiano di venerdì 6 agosto informava: “I Sovrani elargiscono mezzo milione per i sinistrati di Napoli”. Un altro titolo, su tre colonne, riportava il decreto di soppressione del Partito fascista.
Ha scritto Roberto De Simone: “Con due anni di anticipo vivemmo la nostra Hiroshima”. L’anima di una città sepolta sotto le macerie
Forse a molti lettori la politica importava ancora, o forse non importava più tanto. “Forse”, ha scritto De Simone, “noi napoletani con due anni di anticipo vivemmo la nostra Hiroshima quando a Santa Chiara si polverizzarono nel fuoco secoli di storia e di cultura, seppellendo l’anima stessa di una città sotto quelle macerie”. Chi andava in ufficio si chiedeva se avrebbe trovato l’ufficio, chi tornava a casa se avrebbe trovato la casa. Questo collettivo sentimento di precarietà e di perdita pure si trasfuse in una canzone che nel ’44 diventò popolare, ossessiva, irrinunciabile. Una marcetta che virava in allegretto le cupezze angosciose: Dove sta Zazà? si cantava in tutte le strade, la domanda si scriveva sui muri e Zazà fu il nomignolo presto affibbiato alle “signorine” che se la intendevano con gli americani. Non si sarebbe mai ritrovata Zazà, né si ritrovò più la bellissima figliola di un salumiere del rione Vergini, che come rievocava sempre il partigiano Amoretti fu vista entrare nel ricovero dove cadde la bomba del 4 di agosto. Lì si dissolse in minute particelle, che la mente può rintracciare solo tra le stelle inestimabili.
“Dove sta Zazà? / Uh Madonna mia! / Come fa Zazà, / senza Isaia? / Pare pare Zazà / che t’ho perduta, oimè! / Chi ha truvato a Zazà / che m’ha purtasse a mme…”. Un tormentone. Non tanto per l’acclamato musicista Giuseppe Cioffi, il quale fu anche editore della canzone, quanto per il paroliere Raffaele Cutolo. Sissignori, si chiamava come il boss camorrista. Fu autore di teatro leggero e di sketch come Michele Galdieri, il poeta di Munasterio ’e Santa Chiara. Ma se questi piangeva Napoli da Roma, l’esasperato Cutolo per scappare dal successo a Roma se n’andò come per scomparire. Oggi che s’arrampicano tutti, scarrafoni inclusi, su TikTok per acquisire popolarità, non si capisce facilmente la fuga di Cutolo, cui tuttavia Zazà avrebbe garantito un vitalizio con congrui diritti d’autore. La canzone conquistò Evita Perón, che la fece intonare ai descamisados, e Jacqueline Kennedy, che nel salotto capitolino della contessa Pecci Blunt confessò: “A casa la cantiamo tutti” e chiese al maestro Ugo Calise di eseguirla alla chitarra.
Zazà rischiò persino di accompagnare l’insediamento dell’Assemblea costituente. Lo raccontò Giulio Andreotti in un obituary dedicato a Cutolo nel 1985: quando si sparse la voce che i deputati comunisti avrebbero cantato L’Internazionale in apertura dei lavori, il leader dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini, “dichiarò che il suo gruppo si stava esercitando nella canzone Dove sta Zazà, che avrebbero intonato subito dopo l’esibizione comunista. Vera o no che fosse la voce del proposito comunista, l’annuncio qualunquista troncò in radice ogni velleità corale; e i lavori dell’Assemblea iniziarono nella massima austerità e senza musica”.
Al giornalista Vittorio Paliotti, che lo rintracciò nel 1980, Cutolo confidò di essere fuggito perché se non altro a Roma “la gente non mi aspettava sotto il portone, non mi additava, non mi telefonava” per chiedere dove fosse Zazà. “Avrei preso un esaurimento nervoso, se fossi rimasto a Napoli. E per giunta, adesso dovrei tollerare di esser confuso col camorrista mio omonimo”, concludeva amaramente. Però attenzione a lamentarsi del destino. Basti pensare a quello di Barberis, il compositore di Munasterio: dopo la guerra cercò fortuna artistica oltreoceano e nel 1957 fu sorpreso al pianoforte dal devastante terremoto di Città del Messico. Il cuore non resse allo spavento: morì sul colpo a 37 anni e non poté godere la soddisfazione di ascoltare, qualche mese dopo, Johnny Dorelli che eseguiva il suo brano Se tornassi tu al Festival di Sanremo (in cui stravinse Nel blu dipinto di blu).
Le Zazà rimaste a Napoli, i piccoli paisà e gli sciuscià si rifacevano una vita ma non sempre dovevano rubare gli scarponi ai G. I. per sopravvivere, come lo scugnizziello del film di Rossellini. Né prostituirsi. Da ottobre 1943 a luglio 1945 in città furono celebrati 224 matrimoni, “di cui la maggior parte con americani. Con inglesi 17, con scozzesi 2. Molte brune, poche bionde le fanciulle fortunate. Il tipo prettamente meridionale è, dunque, quello che ha incontrato di più. Avvertimento a chi tocca: non ossigenarsi” annotava il quotidiano l’Azione del 21 luglio ’45.
“’O surdato ’nnammurato” adattata per celebrare Rita Hayworth: “Oi Rita, oi Rita mia / oi core ’e chistu core…”.
Ai napoletani invece piacevano le rosse. Nel ’48 avrebbero sognato Rita Hayworth sulle sue sagome di cartone messe davanti ai cinematografi dove si proiettava Gilda. E poiché tutto diventa canzone, anche l’eros fantasticato, si pigliarono in prestito metrica e musica di ’O surdato ’nnammurato, risalente alla Prima guerra: “Oi Rita, oi Rita mia / oi core ’e chistu core…”. Più esplicito ritornello, però, fu catturato da De Simone: “Oi ma’, mannaggi’a mort’ / voglio a Rita Aiuort’ / e verimmo a tutte quante / ca se levano ’a mutand’”. Remotissime erano ormai o sembravano, perché le guerre dilatano i mesi e gli anni, le matinée al Teatro San Carlo per gli alleati germanici, con le prime file occupate dai reduci in barella, le seconde zeppe di cape fasciate e le terze di composti ufficiali che agognavano una licenza a Capri (Die Insel, la fissazione dei tedeschi). Allora tenori e sopranini culminavano l’esibizione con Lili Marleen, che fu canzone universale come la guerra e come la radio che la trasmetteva. Alla versione in lingua originale (“Vor der Kaserne, / Vor dem grossen Tor…”), non contento di quella italiana (“Tutte le sere / sotto quel fanal…”), l’artista Gabriele Vanorio sovrappose la sua in napoletano: “’Nnante il portone d’area militar / c’era un lampione / che ancora ce sta llà. / Ah, nce putessemo turnà / comme na vota tiempo fa / cu te, Lili Marleen”. I kameraden applaudivano e applaudirono anche all’ultima Piedigrotta del ’42, l’evento canoro che la tradizione fissava, come la festa della Madonna, all’8 settembre (data che esattamente un anno dopo avrebbe tramutato gli alleati in aguzzini). Fu un’edizione senza brani memorabili, dettata dagli obblighi retorici di guerra, confinata nel cortile del Maschio Angioino. Bastino per capire alcuni titoli in concorso: ’A Patria è tutto, Si chiamerà Vittoria, Napoli in grigioverde. I verseggiatori si produssero in una commistione di napoletano e italiano perché l’idioma di Basile, Di Giacomo e Russo poco si presta a esaltazioni belliche, ma per obbligo Il Mattino ne promosse l’esito così (da leggersi pensando alle voci dei cinegiornali Luce): “Dallo spontaneo lirismo dell’animo partenopeo, affettivo, generoso e vibrante, insieme con gli accenti della più appassionante tenerezza, s’è espresso in un’onda melodiosa di canti il fervore d’entusiasmo per l’eroico spirito della stirpe impegnata nell’arduo cimento di definitiva redenzione”. La lingua napoletana, benché tarata sull’amore individuale, secondo il cronista superò l’esame: “La Musa vernacola accomuna nel suo estroso vocativo la vittoria del cuore con quella della Patria”.
Nei fatti, la “Musa vernacola” taceva e metabolizzava prima di riesplodere in quella ritrovata creatività che la ferita di Santa Chiara aveva forse riattizzata e che rendeva sopportabile ogni disillusione sovrascrivendola in parodia, amarezza o tenerezza. Coevo di Munasterio ’e Santa Chiara, simile per senso di delusione sentimentale, fu Ammore busciardo, altro titolo destinato a diventare un classico: “Nun te sì chiusa cchiù dint’o cunvento / nun te sì fatta cchiù monaca santa / che m’ho faciste a ffà ‘stu giuramento…”. I poeti s’aspettavano la redenzione sempre dalle donne, le donne se l’aspettavano dagli americani o dalla Vergine, che aveva moltiplicato le apparizioni tra un bombardamento e l’altro. Intanto un prete piccoletto ma determinato – che si venera tuttora come santo – don Dolindo Ruotolo, saliva e scendeva per Scala a San Potito con una borsa piena di pietre per raffinare il fioretto e un seguito di devote salmodianti per redimere anime e corpi. E intanto Padre Pio, già allora venerato, diventava rinomato per avere salvato un pilota italiano durante un combattimento aereo. Facendo sollevare, naturalmente, il sopracciglio all’ufficiale inglese Norman Lewis: “Abbiamo un frate volante… Quasi tutti i napoletani che conosco – alcuni dei quali sono persone colte – sono convinti che la storia sia vera”, commentò nel diario di guerra che avrebbe pubblicato in Inghilterra solo nel 1978.
E intanto vecchie stanche, irrecuperabili scugnizzi, borsaneristi impomatati, soubrette senza scrittura e mutilati, imboscati e giornalisti senza giornale cui don Dolindo e Padre Pio non potevano badare, quando camminavano impararono ad aprire bene gli occhi. Perché la guerra non era terminata e qualcuno per beffarda sorte, dopo essere scampato alle bombe, finì arrotato dalle jeep americane che transitavano a tutta velocità per Toledo, ossia via Roma, mentre i conducenti che avevano bevuto troppo fischiettavano il successo del momento, secondo solo a Zazà: Pistol Packin’ Mama di Al Dexter. Che fu ovviamente parodiato in napoletano, come tutto il resto. Però i soldati più malinconici avrebbero cantato il brano strappacore Somewhere on via Roma, perché anche i marine, alla fin fine, sono uomini che s’innamorano in guerra. E il sentimento, con o senza divisa, prima o poi pretende spartiti.
4 agosto 2023: con il concerto nella basilica di Santa Chiara “lanciamo un messaggio forte di pace e fratellanza”, ha detto padre Massimiliano Scarlato
4 agosto 2023: nella basilica di Santa Chiara hanno commemorato con la musica il bombardamento di ottant’anni fa. Né poteva essere altrimenti. L’Ordine dei frati minori, il Complesso museale di Santa Chiara, l’Orchestra stabile della Canzone Napoletana del Conservatorio di Benevento hanno promosso la celebrazione. “La luce della rinascita – ha declamato padre Massimiliano Scarlato – è un messaggio di speranza. La musica ha una forza incredibile e con questo concerto lanciamo un messaggio forte di pace e fratellanza”. Sono le cose che si dicono e però si devono pur fare: non sempre la retorica imbandisce la noia. L’ingresso era libero per tutti. Per chi ricordava quel giorno e per chi, guardando Santa Chiara dalla collina, s’illude che non sia successo niente. Bisogna confidare più nell’orecchio che nello sguardo.
In una trattoria sui Camaldoli, nel 1947, Giuseppe Marotta fece così, chiedendo al cantante più amato di quella stagione, Amedeo Pariante, di intonargli Munasterio ’e Santa Chiara con un filo di voce. E fu “un cantare ereditario, una quieta domenica del sangue”. Col mento sulla mano e i gomiti sulla tovaglia, Pariante “come se riflettesse cantò”.
Come chiunque può provare adesso, persino il più stonato, perché le pietre nuove camuffano la Storia, ma una bomba che distrugga le canzoni non l’hanno ancora inventata.