L'attore e la supermarionetta
La “disumanizzazione dell'arte” secondo Craig, apologo della distruzione
Prima attore, poi regista e infine teorico inglese di una rivoluzionaria estetica teatrale tipicamente novecentesca, proiettò teoricamente e filosoficamente il teatro al di là di se stesso, perché avrebbe dovuto morire prima di rinascere
Come è mai possibile un teatro, un’arte teatrale senza attori in carne e ossa e senza un pubblico che umanamente rispecchi in loro i propri sentimenti? Un teatro cioè in cui gli attori siano sostituiti da marionette sublimi che collochino l’arte teatrale in una dimensione di pura arte, di puro ritmo e pura forma, e dove nessuna emozione, nessun sentimento umano abbia più posto?
Secondo Edward Gordon Craig (1872-1966), prima attore, poi regista e infine teorico inglese di una rivoluzionaria estetica teatrale tipicamente novecentesca, con l’eliminazione dell’umano dall’arte teatrale che sarebbe stata la salvezza del teatro, la fine, il superamento della sua “volgarità”. Nel suo scritto ormai famoso “L’attore e la supermarionetta”, pubblicato nel 1908, quando aveva trentasei anni e non recitava più da circa dieci, Craig proiettò teoricamente, filosoficamente il teatro al di là di se stesso, perché avrebbe dovuto morire prima di rinascere. Quando teorizzò sulla marionetta, che avrebbe sostituito l’essere umano e il corpo umano, il teorico inglese dimenticò o non conosceva (cosa più improbabile) il più bel saggio sulle marionette, quello scritto da Heinrich von Kleist un secolo prima. Chissà, forse Craig non voleva far sapere che la sua teoria non era del tutto originale e aveva un mirabile precedente in Kleist, il più geniale drammaturgo dello Sturm und Drang.
Ora il volume di Craig viene riproposto con testo inglese a fronte dalle edizioni La Vita Felice, con una prefazione di László Földényi (pp. 133, euro 12). La ragione per cui ne parlo è la straordinaria esemplarità, anche negativa, del discorso di Craig. Tutto il Novecento si è voluto fin dall’inizio allontanare dall’Ottocento, attaccando ripetutamente, ossessivamente ogni tendenza che favorisse, prescrivesse o indirettamente implicasse l’imitazione della realtà e della natura. Quindi antirealismo, antinaturalismo, arte dominata dalla purezza e assolutezza trascendentale della forma. L’arte nuova non doveva imitare la vita, non doveva essere al servizio della vita. Niente naturalezza, ma artificio evidente, esibito. La teoria teatrale di Craig è un perfetto modello di questo estremismo formale, di questo primato dell’artificio che supera e nega la vita. Nel teatro questo significava che il nemico è l’attore in carne e ossa, sono gli attori in quanto esseri umani.
Se si pensa che a metà degli anni Venti il filosofo José Ortega y Gasset scrisse il suo saggio “La disumanizzazione dell’arte”, allora le teorizzazioni di Craig sull’abolizione degli attori si spiegano come una delle molte varianti dell’antiumano in arte: poesia, letteratura, pittura, scultura, architettura, musica del Novecento. Era semmai proprio quest’ultima, la musica, a rappresentare meglio di ogni altra arte una purezza formale antinaturalistica.
Non in tutte le sue formulazioni antiattore e a favore della Supermarionetta Craig è così estremista e provocatorio. La sua idea è anche permettere agli attori “di liberarsi dalle catene che li tengono prigionieri”. Non devono essere mimetici della vita reale, ma devono “dare vita a una nuova forma di recitazione, fatta soprattutto di gestualità simbolica”.
E’ vero che la vita è caos mentre l’arte non lo è, o si pensa che non dovrebbe esserlo. L’arte è stile, è forma, è calcolo, è controllo, ripete Craig: è andare al di là della vita. Non la imita, la crea. Chi copia servilmente la realtà e la natura è “un imitatore, non un artista”. Per rinnovarsi il teatro dovrà evitare del tutto “questa vita di carne e di sangue, che amiamo tanto”; dovrà farla morire e “gli attori dovrebbero allenarsi a una scuola più antica”, guardare alle più remote tradizioni dell’Asia e dell’Africa. Basta con la personalità e con l’impersonarsi degli attori; basta con quella “cattiva arte” dell’attore che si esprime in termini emotivi e personali. E qui Craig cita con approvazione una frase di Eleonora Duse: “Per salvare il teatro bisogna distruggere il teatro, gli attori e le attrici devono tutti morire di peste… Essi avvelenano l’aria, rendono l’arte impossibile”. E Craig conclude: “L’attore deve scomparire, e al suo posto comparire la figura inanimata – la supermarionetta”, medium dell’intelletto dell’artista, “figura o creatura simbolica creata dall’astuzia dell’artista”.
Qui capisco e non capisco. Quando i propositi riformatori e correttivi di Craig diventano tabula rasa e morte del mimetismo, allora l’ideale, l’astrazione coincidono con una apologia della distruzione. Ma Craig in questo caso è solo uno dei tanti teorici dell’estetica del Novecento che taglia istericamente i ponti con l’Ottocento. La stessa cosa è avvenuta in poesia, ridotta a pura chimica del linguaggio, nel romanzo senza personaggi né narrazione, nella pittura non figurativa e appunto in quella “disumanizzazione dell’arte” di cui parlò Ortega: un’arte in cui l’essere umano non riesce più a riconoscersi e che va contemplata come un enigma.
Chi oggi si ostina a riprodurre le avanguardie del Novecento pecca due volte: sia di mimetismo sia di astrazione. Imita l’arte e insieme la nega.