scrittrice-contro
Michela Murgia, oltre i libri un'altra narrativa
La malattia, la trasgressione e il senso del limite di una vita impegnata. E la condanna nella nostra cultura votata alla dolenza: vogliamo santini laici, non scrittori abili
Michela Murgia aveva il grande talento degli scrittori che arrivano al primo libro dopo aver lavorato. Venditrice di multiproprietà, operatrice in un call center, portiere di notte, vari anni come insegnante di religione a scuola, anche se qui siamo già in zona “vocazione letteraria”. Ma non era una predestinata. Non sentiva il bisogno di isolarsi dal mondo per scrivere, né poteva permetterselo. Divenuta celebre, ha incarnato il personaggio della scrittrice-contro e “anti”, emblema d’una militanza in cui confluivano azionismo cattolico, femminismo, scampoli di comunismo, anticapitalismo e battaglie civili varie. Aveva nel patriarcato un’entità precisa contro cui scagliarsi, come Pasolini ebbe il “Palazzo”, e poi naturalmente il fascismo, anche da misurare a metri o tagliare a tranci, come la pizza. Aveva la tigna, la grinta e la tenacia di chi vuole far sentire la propria voce. Per “denunciare le ingiustizie”, si dirà subito, ma anche per trovare un suo posto nel mondo, come tutti noi. E non è un motivo meno nobile.
Martin Amis diceva che quando sosteniamo in pubblico di amare il lavoro di uno scrittore, anche mettendoci la mano sul cuore mentre lo diciamo, esageriamo sempre un po’. Al massimo amiamo metà della sua produzione, a volte anche meno. Chissà in quanti, mettendosi la mano sul cuore per ricordare Michela Murgia sui social, avranno letto anche solo metà della sua produzione e quanti invece sono fermi alle lacrime versate sulle sue ultime interviste al Corriere e a Vanity Fair. Il fatto è che i libri di Murgia si possono tranquillamente ignorare e questo non sminuisce affatto il suo impatto nello spazio pubblico. Non stiamo dicendo che sono libri senza valore, ma al contrario che il valore di uno scrittore dalle nostre parti non si misura col talento letterario, lo stile, l’abilità di scrittura, e in fondo neanche col successo, i premi, le vendite (sempre sospette casomai), ma con la capacità e l’abilità di “abitare l’impegno”. È la condanna della nostra cultura votata alla dolenza. Vogliamo santini laici, non scrittori abili. Vogliamo vite esemplari, prediche, indicazioni di strade da seguire, denunce dei mali che affliggono il mondo, testimonianze in prima persona. È la vita impegnata, non l’opera, che detta legge.
Dal diario in forma di blog che teneva ai tempi del call-center alla trasformazione della sua malattia in una narrativa sul senso delle cose ultime, Michela Murgia è stata fedele a questo principio. Tra i suoi tanti vantaggi, l’impegno permette anche di nascondere meglio la vanità, motore universale di ogni impresa letteraria, Kafka incluso. Ha però le sue regole, il suo bon-ton, codici, dogmi indiscutibili, atteggiamenti e comportamenti da tenere in pubblico e in privato, visto che la distinzione è saltata da un bel po’. Liberarsene è molto difficile. Ma è il prezzo da pagare per essere presi sul serio, diventare qualcuno, avere una voce autorevole. Michela Murgia lo sapeva bene. E sembrava felice come una principessa Disney nel backstage del servizio fotografico su Vanity Fair, finalmente libera di uscire anche dal personaggio che le ha dato fama e gloria. “Volevo vedere le sfilate, ma sono sempre stata troppo pauperista e comunista”, ha confessato al Salone di Torino, “dicevo ‘ma se mi vedono alle sfilate cosa penseranno?’. Ma io non sono il segretario del Partito democratico, io ci posso andare. Non ho più limiti. Però vi dico: non aspettate di avere un cancro per fare la stessa cosa”. Saremo una minoranza, ma a noi suona più trasgressivo questo che la famiglia queer.