La relatività della pace
Com’è banale Einstein quando parla di guerra. E com’è utile invece Freud che ci svela il motore della civiltà. Rileggere il loro carteggio alla luce del pacifismo d’oggi, della cultura woke e del moralismo dominante
All’inizio degli anni 30, su impulso della Società delle Nazioni e dell’Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale, venne promosso un dibattito epistolare sui temi di più stringente attualità tra le maggiori figure della cultura dell’epoca. Fu questa l’occasione per la lettera che Albert Einstein scrisse a Sigmund Freud nel 1932 e che si trova nel volumetto “Perché la guerra?” (in Italia da diversi anni nel catalogo Bollati Boringhieri). Einstein, nella sua lettera, si lamenta dell’aggressività dell’uomo e fin da subito si interroga se ci sia un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra causata dalla loro aggressività e dalla “sete di potere della classe dominante”. Il fisico auspica una pace mondiale sotto l’egida di “un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti” ma, per fare questo, per trovare “i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili i conflitti armati” bisogna prima riformare le coscienze della cosiddetta intellighenzia e dargli una nuova forma psichica, mentre le masse incolte seguiranno. E’ a questo punto che Einstein pone a Freud un quesito che è allo stesso tempo un auspicio: “Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?”.
E’ straordinario notare come la mente che forse più di ogni altra si è avvicinata al segreto delle cose, nel momento in cui si trovi a gettare il proprio sguardo sull’uomo e sulle sue azioni sia capace delle più sbalorditive banalità, e di messaggi all’apparenza così pacifici da manifestare uno spaventoso autoritarismo repressivo (a fin di bene!), tipico del riduzionismo scientista che pretenderebbe di applicare le medesime leggi alle cose e agli uomini. Questo tuttavia, e qui apro e chiudo una parentesi, non fa che evidenziare ancora un’altra fondamentale questione ossia che l’uomo non è una cosa tra le cose ma, senza timore di usare questa parola, Spirito. A questo punto però dobbiamo fermarci perché su questa parola potremmo scervellarci come hanno fatto schiere di pensatori. Per ora basta osservare che lo Spirito è qualcosa di diverso, di eccedente, rispetto alle cose.
La bonaria e pericolosa banalità pacifista di Einstein ci interessa anche perché il verbo einsteiniano è diventato il verbo condiviso dalla maggioranza delle “masse incolte”. Ed è divenuto il verbo condiviso proprio in virtù della sua stessa banalità che però, allo stesso tempo, fa leva sull’autorità assoluta di chi quelle parole ha scritto, autorità che gli viene da una comprensione delle cose che non hanno a che fare con l’uomo, con lo Spirito, di cui pretende di occuparsi. Possiamo infatti al massimo dire che attraverso le equazioni einsteiniane lo Spirito comprende meglio se stesso e la propria posizione nel cosmo, ma anche che le equazioni non sanno nulla dello Spirito.
Quella banalità che è divenuta dominio del mondo (la banalità non è altro che il vero pensiero unico) e che permette al verbo di un Einstein di divenire il verbo del mondo è l’altra faccia di quella meravigliosa civilizzazione di cui parla Freud nella sua brillante risposta (che è una parziale sintesi del suo pensiero più ampiamente articolato nel grande saggio, di poco precedente, “Il disagio della civiltà”). Freud considerava noioso e sterile quel colloquio con il fisico ma la sua risposta è eloquente e chiara. Parte da una riflessione storico-antropologica su diritto-forza-violenza per arrivare poi rapidamente a dire, con un paradosso, come l’unica ricetta per eliminare la guerra è forse la guerra stessa e che quindi la guerra è sostanzialmente ineliminabile: “Anche i bolscevichi sperano di riuscire a far scomparire l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della comunità. Io la ritengo un’illusione”.
La civiltà, del resto, è per Freud tutt’uno con l’aggressività. E’ grazie alla misteriosa rinuncia pulsionale, infatti, che gli individui riescono a unirsi in società, ma quell’aggressività a cui si rinuncia non scompare. Gli uomini infatti la rivolgono verso la loro interiorità creando quel Super-io, quel giudice interiore ovvero quella coscienza morale e quel senso di colpa che costituisce il collante della civiltà e che cresce progressivamente al crescere dell’incivilimento. Inoltre, Freud mostra come lo spegnimento delle pulsioni distruttive non sia auspicabile visto che è dalla dinamica tra queste pulsioni e quelle “erotiche”, che tendono a conservare e unire, che passano tutti i fenomeni della vita i quali “dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre legata – vincolata come noi diciamo – con un certo ammontare della controparte”. Freud vede la guerra come perfettamente comprensibile e giustificabile a livello biologico, tuttavia anch’egli si identifica come pacifista perché, nella sua ottica, non possiamo non essere tali. E questo per via di quel mirabile processo di incivilimento che ci rende intollerabili determinate manifestazioni umane che magari per i nostri genitori erano addirittura fonte di piacere: “Poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa”.
Nel suo realismo Freud vede la grandiosità “umanistica” del processo di incivilimento ma allo stesso tempo ne vede il profilo minaccioso al punto da ritenere che l’incivilimento potrebbe un giorno portare all’estinzione del genere umano come accade agli animali troppo addomesticati. L’addomesticamento operato dalla civiltà sulle pulsioni degli uomini porta in dote qualcosa di davvero notevole, ossia è ciò che consente la sublimazione delle pulsioni, ciò che ci eleva al di sopra del rango di animali e che ci rende Spirito grazie ai raggiungimenti scientifici, artistici, politici. Allo stesso tempo, l’introiezione dell’aggressività da parte degli uomini, la loro “auto-repressione”, crea le basi, come già accennato, per la morale e per quel vero e proprio collante delle società civilizzate che è il senso di colpa. Tanto più cresce la capacità di avvertire la colpa per le proprie azioni aggressive verso gli altri tanto più la civiltà è moralmente retta e coesa. Ma questo non è un meccanismo dato una volta per tutte. Infatti la coscienza morale tende a crescere con ogni rinuncia pulsionale che rende la coscienza sempre più severa domandando sempre nuove rinunce, sempre meno male, sempre meno azioni cattive. Si genera così un senso di colpa che si fa via via più categorico ed esigente proprio in virtù del perfezionamento stesso della civiltà. Un apparato morale-coscienziale talmente sviluppato e rigoroso da infiacchire l’uomo e la sua capacità di agire. Fino al punto in cui, all’apice della civilizzazione, “la coscienza ci fa tutti vili”.
Da questo punto di vista possiamo ripensare alle bonarie e illiberali banalità di Einstein come il frutto maturo del processo di incivilimento, anzi, come l’avanguardia del processo di civilizzazione (visto che di lì a poco ci sarebbe stata la Seconda guerra mondiale evidentemente quella di Einstein non era una sensibilità condivisa ma lo sarebbe diventata in modo universale dopo il 1945).
Questo estremo processo di incivilimento-addomesticamento incentrato sul senso di colpa che Freud ha descritto con chiarezza noi lo verifichiamo giorno dopo giorno intorno a noi. La cancel culture, la cultura woke, il moralismo dominante, la cautela verbale verso tutto e tutti, l’ecologismo apocalittico, e tutti gli altri fenomeni (ogni giorno uno nuovo) di generica tutela del prossimo da qualsivoglia esposizione al dolore e, per riassumere, l’innalzamento della Vittima a figura totemica (tutti e tutto diventano potenziali vittime), non sono altro che il venire a essere totalizzante del processo di civilizzazione. Come scrive René Girard in “Vedo Satana cadere come la folgore”, “un perpetuo gioco al rialzo trasforma la preoccupazione per le vittime in un’ingiunzione totalitaria, in un’inquisizione permanente”.
E la guerra, al di là di ciò che sta accadendo in questo momento, non è più il vero oggetto del discorso ma lo è il conflitto inteso in senso ampio. Essendo la conflittualità, il confronto/scontro tra le parti, sempre di per sé anche dolorosi, il processo di incivilimento ha posto nella propria pressa morale il conflitto tout court: bisogna disinnescare tutti i conflitti. Ecco l’attuale e nuovo obiettivo del processo d’incivilimento.
Ma, come visto, la dinamica della vita umana richiede il conflitto, richiede la tensione costante tra, per dirla alla Freud, pulsione erotica e pulsione distruttiva altrimenti lo Spirito tende a sfaldarsi nella medesimezza dello spegnimento delle passioni auspicato dalle banalità einsteiniane. Questo dominio della Vittima come nuovo assoluto, la volontà di spegnere ogni conflitto che possa generare dolore, costituisce l’essenza del vero pensiero unico e della macina del processo di civilizzazione. Se fosse ancora in piedi l’impolverato dibattito tra cultura e civilizzazione, potremmo dire che ciò che la Cultura deve fare per salvare la civilizzazione da sé stessa sarebbe divenire il barbaro alle porte della propria stessa civiltà. Bisognerebbe fare a pezzi la costruzione concettuale in cui anneghiamo “civilizzandoci” e rimettere al centro l’importanza del conflitto nella vita dello Spirito (senza conflitto ci sono solo uomini ridotti a cose nello spazio inutile e ripetitivo di una pacificazione universale).
Se gettassimo uno sguardo un po’ irriguardoso sul concetto evangelico “ama il tuo nemico”, potremmo spingerci a leggerlo nell’ottica del “riconosci l’assoluta necessità del nemico come pura alterità, come irriducibile altro”. Non colpevolizzare il nemico ma assumilo come l’altro necessario, come ciò senza cui nulla potrebbe esserci perché tu non potresti essere. Poiché il nemico è l’irriducibilmente altro, è ciò senza il quale nemmeno tu saresti. Il nemico diviene la fonte stessa del nostro esserci, del nostro confrontarci, del nostro svilupparci. Ed è anche il limite da superare che, però, deve sempre esserci, che deve sempre essere ri-posto davanti a noi: è termine di paragone assoluto. Senza questo limite del nemico si dimora nell’astratto, nel generale e ci si spegne a poco a poco in sé stessi (o anche in altri sempre più simili e indistinti da sé).
Il nemico per sua natura costituisce un limite e quindi una divisione, una separazione. E’ l’avversario. Per il cristianesimo questo è chiarissimo, si parla del diavolo come di colui che genera inimicizia, conflitto, come colui che nega, divide, separa. Ma senza separazione, senza divisione, nulla può venire a essere. Senza il conflitto, senza la negazione, di cui il diavolo è archetipo, non c’è possibilità della dinamica necessaria alla vita, non c’è azione o attività. E’ questo un tema imprescindibile del pensiero occidentale, basta ricordare che per un pensatore come Spinoza, che pure rivendicava l’unità della sostanza come assoluto, ogni determinazione non è altro che negazione.
Nel “Faust”, Mefistofele è certo l’operatore di distruzione eppure è necessario alla creazione in quanto forza oppositiva, termine dialettico negativo, affinché ci sia qualcosa invece che niente. Mefistofele è inviato presso Faust dal Signore che dice: “Erra l’uomo finché cerca” e con questo “cerca” viene tradotto streben (l’inesausto sforzarsi e spingersi oltre). Quindi lo streben, che è l’essenza della ricerca, implica errore che, scrive Fortini, “è condizione per giungere alla verità, implica la positività della lotta e dello sforzo, della tensione e del tentativo”. Solo il diavolo, con la sua potenza divisiva, può essere in grado di mettere in moto questo circolo che determina la vita umana e la persona, la sua identità, la sua azione. Così il diavolo è effettivamente co-creatore del mondo: negando e dividendo, ponendo in conflitto, permette la vita.
Fuor di metafora, questo discorso implica una necessità della permanenza del “male”, del soggiorno presso il negativo, della pulsione distruttiva o in qualsiasi altro modo si voglia chiamare il sole nero necessario ad alimentare la vita dello Spirito. Un processo di incivilimento che vuole liberarsi dal “male”, un male totalmente identificato ormai con ciò che genera dolore psico-fisico di qualsiasi natura, significa voler spingere il processo d’incivilimento fino a quel punto “apocalittico” in cui l’uomo non tenta di più di conoscersi come Spirito attraverso un percorso conflittuale e doloroso sotto la luce dello streben, ma diviene mansueta cosa tra le cose, perfettamente integrato con il tutto e da esso indistinto. Ecco il possibile esito finale dell’auspicata pace universale.