il libro
Tra Carducci e Croce un carteggio di buone maniere e grandi distanze
Aragno pubblica le lettere del poeta e del giovane erudito. Diverse prospettive su un'epoca comune. Difficile immagine un rapporto del genere nel XX secolo
È sempre interessante conoscere i rapporti tra due intellettuali di primo piano che hanno osservato la stessa epoca da prospettive diverse ma non del tutto incompatibili. Anche dove questi rapporti sono assenti o scarsi, infatti, la circostanza è significativa. Ora Aragno pubblica a cura di Felicita Audisio il “Carteggio Croce-Carducci (1887-1906)”: che non è certo fitto, ma merita attenzione, visto il ruolo giocato dai corrispondenti nella costruzione della nostra identità nazionale. Del resto il libro ha molti strati: le lettere sono fasciate da una lunga introduzione, da note minuziose, e dal saggio su Carducci con cui Croce inaugurò nel 1903 “La Critica”. Da una parte c’è il vate della Terza Italia, la cui leadership è già insidiata dai decadenti (D’Annunzio, Pascoli) che Croce chiamerà “malati di nervi”; dall’altra parte c’è uno studioso ventenne, e ricco abbastanza da farsi editore. Se il poeta liricheggia sull’erudizione, l’erudito comincia a filosofeggiare sulla storia. Entrambi lo fanno in una prosa eloquente: bizzosa la carducciana, e la crociana olimpica. Ma nei loro umanesimi, le generazioni successive non troveranno più un cibo sufficiente. Lo dichiarerà in un memorabile doppio ritratto Renato Serra: che ama il maestro Giosue anche nelle angustie di uomo schietto, ma lo sa ignaro delle proprie angosce; che riconosce a Croce una mente più vasta, ma rifiuta la freddezza con cui il neoidealista riduce gli scacchi dei singoli a una quantité négligeable del sistema. Nel 1887, però, tutto questo è di là da venire. L’autorevole poeta-professore si limita a porre domande su un episodio storico partenopeo; e la brillante promessa degli studi risponde con puntualità. A intermittenza, Carducci continua poi a chiedere informazioni (nel 1904 anche soldi, per un’edizione del Muratori) ornandole con gentilezza; e Croce mantiene un tono da “disponga di me”. Ma se approfondissero gli argomenti, la distanza apparirebbe chiara. All’inizio Carducci indaga sull’amato arcade Fantoni, che per Croce è il tipico rappresentante di un ’700 senza poesia. Verso la fine del carteggio, Carducci giudica l’“Estetica” avuta in dono una “guida”: il che, detto da un nemico della teoria, può sembrare mero galateo, o l’ennesima resa allo spirito del tempo. Ma tra questi estremi c’è un delicato passaggio “fuori campo”. Nel 1898 lo studioso napoletano cura le “Lezioni” di De Sanctis, il grande critico maltrattato da Carducci, che dopo una polemica accetta di smussare un po’ i suoi strali. Croce eviterà sempre il confronto tra i due opposti maestri, ribadendo che operano in ambiti differenti: De Sanctis è il Pensiero e Carducci la Lirica, perfino dove ragiona da filologo – perché avendo vissuto in un’epoca priva di ideali, proprio la filologia, ovvero l’indagine scrupolosa del passato, gli ha fornito l’unica materia poetica valida. Comunque il filosofo rinnegherà sia la critica tecnico-formale carducciana, sia la concretezza storica desanctisiana: e quando i suoi eredi saranno sazi delle sue astrazioni, non per caso torneranno a un De Sanctis marxistizzato, o a un Carducci modernizzato dalla Stilkritik. I corrispondenti si videro una volta sola a Napoli nel ’92. Nel 1905, Croce fece capolino alla libreria bolognese Zanichelli, dove svernava il vate: ma gli sembrò ormai “una quercia fulminata”, e per tatto se ne andò senza salutarlo. Difficile immaginare un rapporto analogo nel XX secolo: Saba-Debenedetti? Montale-Contini? O Montale-Fortini? Troppa è la differenza tra un mondo di padri autorevoli e un mondo di orfani: per i quali, potremmo dire aggiornando l’espressione crociana, sia le faccende intime sia quelle pubbliche diventano una questione di nevrosi.