magazine
Hiram Bingham, l'Indiana Jones di Machu Picchu
Dietro l’archeologo cinematografico c’è un personaggio ancora più straordinario: scoprì la città segreta degli Inca dopo mille peripezie
Il 24 luglio 1911 Hiram Bingham a 2.400 metri sulle Ande peruviane scoprì la leggendaria città perduta di Machu Picchu. “Montagna vecchia” in runa simi: la lingua di quel popolo quechua che aveva come sovrano l’Inca e il cui impero si chiamava Tahuantinsuyo, “Le quattro parti del mondo”. Il 28 giugno è arrivato nei cinema “Indiana Jones 5 e il Quadrante del Destino”. Una quasi coincidenza che ha fatto ricordare a molti come fu Bingham il vero Indiana Jones.
In realtà, sono oltre una ventina i personaggi storici o immaginari cui l’archeologo con la frusta può essere stato ispirato, e in alcuni casi il debito è stato riconosciuto. Per esempio, il prologo della prima puntata, quella dei “Predatori dell’Arca Perduta”, mostra una statuetta che rimossa da un piedistallo provoca un crollo. È presa pari pari da una storia di Paperon de’ Paperoni di Carl Barks: “The Seven Cities of Cibola” del 1954, pubblicata in italiano come “Zio Paperone e il tesoro delle sette città”. Nella terza puntata, “Indiana Jones e l’ultima crociata”, il ruolo del padre affidato a Sean Connery è un altro omaggio voluto a un ulteriore prototipo: James Bond. Ma lo stesso Sean Connery 14 anni dopo nella “Leggenda degli uomini straordinari” avrebbe interpretato anche Allan Quatermain: il protagonista delle “Miniere di re Salomone” che è una terza fonte di ispirazione.
George Lucas ha fatto anche un riferimento a Giovanni Battista Belzoni: un padovano che visse tra 1778 e 1823 e che fu sia un forzuto del circo, sia un inventore, sia un padre dell’egittologia. Ed è circolato anche il nome di Otto Rahan: occultista tedesco ricercatore del Santo Graal per conto della Ahnenerbe, sorta di servizio segreto nazista specializzato nella caccia a tesori esoterici. Ma forse quello ha ispirato piuttosto certi avversari di Indiana… Tagliando corto su tanti altri nomi, sempre Lucas ha però confessato come fonte di ispirazione principale un film del 1954: “Il segreto degli Incas”, diretto da Jerry Hopper ed interpretato da Charlton Heston. È Harry Steele interpretato da Heston a indossare quello che in seguito sarebbe diventato il paradigmatico completo “Indiana Jones”: giacca di pelle marrone; cappello fedora; pantaloni marrone chiaro; una borsa a tracolla; un revolver. C’è pure una barba incolta, assolutamente insolita per i film del tempo. E c’è perfino la scena di una tomba che coinvolge un raggio di luce rivelatore, molto simile a una sequenza nei “Predatori”. Steele è un avventuriero secondo cui la civiltà Inca si è estinta per volere degli Dei in seguito alla scomparsa di un tesoro dall’interno del Tempio del Sole. Per farla risorgere si mette dunque alla sua ricerca, affrontando molte prove con l’aiuto della rifugiata rumena Elena Antonescu ed affrontando il cattivo Edward “Ed” Morgan. Il film fu anche girato nei luoghi reali dell’ambientazione, a Cuzco e Machu Picchu: la prima volta che una grande major cinematografica americana faceva delle riprese in questi siti archeologici. E nel film furono pure impiegati 500 nativi del posto come comparse. Qui, insomma, si fa evidente che Steele è un “ponte” tra Bingham e Indiana. In “Le avventure del giovane Indiana Jones”, serie di 28 episodi tv girati tra 1992 e 1996, scopriamo infatti che Jones si è appassionato alle avventure di Bingham leggendole sul National Geographic nel 1916. E qui il cerchio si chiude definitivamente, anche se in realtà, Hiram Bingham fu in fondo un personaggio ancora più straordinario di Indiana Jones.
Nato a Honolulu il 19 novembre 1875, morto a Washington il 6 giugno 1956, un suo curioso record fu di essere stato governatore di uno stato Usa, il Connecticut, per un giorno solo: dal 7 all’8 gennaio 1925. In contemporanea si era infatti candidato al Senato, sempre per il Connecticut. Eletto in entrambe le sedi e costretto a scegliere, preferì il Congresso, dove sedette dal 17 dicembre 1924 al 3 marzo 1933. Col Partito repubblicano, ma appartenente a una vera e propria “dinastia” di personaggi che erano tutti cinematografici.
Allo stesso modo in cui nella terza puntata si scopre che Indiana Jones aveva in realtà lo stesso nome del padre più un Junior, Hiram Bingham era Hiram Bingham III. Il nonno Hiram Bingham I, nato nel 1789 nel Vermont da una famiglia di pastori congregazionalisti emigrata in America nel 1650, sposatosi a trent’anni con Sybil Moseley era partito con lei a fare il missionario nelle Hawaii. Con grande successo: non solo già nel 1823 la regina Kaʻahumanu e sei alti capi avevano chiesto il battesimo, ma con sua influenza la sovrana vietò prostituzione e alcool, al costo di durissimi scontri con gli equipaggi delle navi occidentali in scalo; combatté i missionari cattolici; cambiò il sistema di proprietà della terra per adeguarlo al capitalismo di mercato. Inoltre adattò l’hawaiano all’alfabeto latino: traducendo la Bibbia, componendo inni religiosi tuttora in uso, e creando anche scuole. Ma esagerò nelle sue interferenze con la politica locale, e nel 1840 la Chiesa congregazionalista decise che era meglio richiamarlo nel New England. Hiram I si mise allora a scrivere un libro di memorie, e a predicare in una chiesa per neri. Morto nel 1869, è in realtà lui il reverendo Abner Hale protagonista della terza parte del romanzo “Hawaii”: scritto nel 1959 da James Michener per festeggiare la promozione dell’arcipelago a 50esimo stato degli Usa, nel 1966 il titolo “Hawaii” fu dato a un film che prendeva la sola terza parte, e in cui Bingham I-Hale è interpretato da Max von Sydow, già cavaliere che gioca a scacchi con la morte nel “Settimo sigillo”, mentre Sybil Moseley-Jerusha Bromley era Julie Andrews-Mary Poppins. Sia il libro sia il film ne fanno un po’ una caricatura, ma lo Hale di carta è più tradizionalista e bigotto, mentre quello di celluloide a un certo punto inizia a modernizzarsi.
Dopo essersi sposato con Clara Brewster, discendente di un passeggero del Mayflower, alle Hawaii riuscì però a tornare a 26 anni Hiram II, come missionario: era nato a Honolulu nel 1831. E andò anche oltre, visto che riuscì a convertire le isole Gilbert, attuale stato indipendente di Kiribati. Anzi, a sua volta tradusse la Bibbia, nel polinesiano locale. Insignito di un Dottorato a Yale nel 1895, morì a Baltimora nel 1908. E’ lui il padre di Hiram III. Ci si perdoni il passaggio dal flashback al flashforward, ma tra i suoi sette figli c’è anche un Hiram IV che visse tra 1903 e 1988 e che a sua volta meriterebbe forse un film più lungo dei sette minuti e mezzo di documentario che nel 2011 gli dedicò il Centro Simon Wiesenthal. Viceconsole a Marsiglia, tra 1940 e 1941 aiutò 2.500 ebrei a scappare dai nazisti. Un suo fratello che non si chiamava Hiram ma Jonathan e che visse tra 1914 e 1988 fu prima delegato Usa all’Assemblea generale dell’Onu, e poi membro della Camera dei rappresentanti per il Bronx tra 1965 e 1986. Democratico liberal, molto attivo sui fronti dell’ambiente, della non proliferazione nucleare e dei diritti umani nel mondo.
A interrompere la tradizione ecclesiastica della famiglia, però, era stato Hiram III. Laurea a Yale nel 1898 e a Berkeley nel 1900, seguì uno dei primi corsi di storia Usa sull’America Latina, prendendo un dottorato di ricerca a Harvard nel 1905, e vedendosi assegnare nel 1907 sempre a Harvard un pionieristico incarico di Lettore di Storia del Sud America. In realtà il suo approccio era ancora di tipo politologico e filologico, e nel 1908 scrisse infatti un libro in cui faceva una rassegna delle risorse sulla materia che erano disponibili tra biblioteche e archivi sia degli Usa che della stessa America Latina. Insomma, tutto tranne che un archeologo. Ma da cosa nasce cosa. In quello stesso 1908, proprio in virtù di quel libro lo mandarono infatti come delegato al primo Congresso scientifico panamericano a Santiago del Cile. Di ritorno per il Perù, un prefetto locale lo convinse a visitare la città precolombiana di Choquequirao. Ci si appassionò, e una volta negli Usa pubblicò sul suo viaggio il libro “Across South America: an account of a journey from Buenos Aires to Lima by way of Potosí, with notes on Brazil, Argentina, Bolivia, Chile, and Peru”. In epoca già globalizzata ma senza tv e documentari, questo tipo di pubblicazione aveva un buon mercato, e sull’onda del successo il politologo-filologo figlio e nipote di missionari riuscì a convincere Yale a finanziare una spedizione per ritrovare la capitale perduta degli Incas.
La storia inizia il 26 aprile 1533, quando Vinca Atahualpa, sovrano del Perù, è strangolato da un boia spagnolo. Francisco Pizarro, il conquistatore bianco venuto dal mare, si è impadronito dell’impero approfittando della guerra civile tra Atahualpa e suo fratello Huascar, legittimo erede al trono. Facendo giustiziare l’usurpatore per il fratricidio e mettendo sul trono il nipote dell’ucciso Manco Capac II, cerca di darsi una legittimità. Ma Manco Capac II si stanca presto di fare il sovrano fantoccio e scappa, chiamando il popolo alla rivolta. Duecentomila guerrieri assediano la capitale Cuzco, dove Pizarro è chiuso con soli 200 uomini. Lo spagnolo riesce a resistere fino al tempo della semina, quando sa che i soldati-contadini dell’Inca devono tornare ai loro campi. E la controffensiva fallisce. Pian piano, l’impero si sottomette. Ma nella scoscesa regione di Vilcabamba una fortezza continua a resistere. E’ sulla “Montagna Vecchia”: 3.200 scalini intagliati nella roccia conducono a questo nido d’aquila cinto per tre lati da un abisso di 700 metri e per il quarto da una cresta rocciosa. E immense terrazze, anch’esse scavate nella roccia e poi ricoperte di fertile humus, riforniscono i ribelli con mais, patate, fagioli, peperoncini. Per quarant’anni i soldati del Viceré spagnolo setacciano giungla e montagne, senza trovare la città nascosta da cui gli Inca lanciano micidiali raid contro gli invasori. Manco Capac II muore però nel 1544, mentre sta arbitrando una partita di calcio tra una squadra di peruviani ed una composta da sei disertori spagnoli. Un gol contestato scatena una rissa, ed uno spagnolo tira in testa all’Inca una palla che lo stende morto. Gli succede il primogenito Sayri Tupac, poi il secondogenito Titu Cusi, avvelenato quando inizia a parlare di trattativa. Dopo tanti anni, l’unico pozzo della città nascosta si sta esaurendo, e l’esistenza dei ribelli è sempre più precaria. E’ forse per propiziare un ritorno dell’acqua che il terzogenito prende un nome che significa “Serpente Reale”, dall’animale che nel mito incaico è patrono delle risorse idriche? A ogni modo, anche Túpac Amaru I è costretto a lasciare Vilcabamba, e nel 1572 è catturato e giustiziato. Nella stessa piazza in cui nel 1781 sarà giustiziato un suo discendente che ha guidato una nuova rivolta antispagnola col nome di Túpac Amaru II. Da lì l’etichetta spregiativa di “tupamaros” che gli spagnoli daranno ai ribelli nelle guerre d’indipendenza latino-americane iniziate una trentina d’anni dopo, che alcuni ribelli faranno propria, e che nel XX secolo sarà riesumata da alcuni gruppi guerriglieri.
Il mistero della città nascosta eppure abbastanza vicina a Cuzco da permettere i raid era però durato un altro secolo. Era “un luogo dove montagne di ghiaccio, fiumi scroscianti con paurosa violenza, giungla e nuda roccia dovevano aver congiurato per non permettere a nessuno di penetrare il segreto”, ragionò Hiram III. Come spiegò nella relazione da lui scritta il 24 luglio 1911, “le nostre ricerche si sono svolte su un’estensione di circa 1.800 miglia quadrate, un territorio della cui esistenza nessuno, prima del 1911, aveva la minima idea. Deve essere una delle più grandi regioni glaciali del Sud America non ancora registrate ed è appena a cento miglia da Cuzco! Gli ultimi Inca non avrebbero mai potuto trovare un nascondiglio migliore”.
Indiana Jones nei suoi film si imbatte in continuazione in serpenti, ragni mostruosi, topi e bacherozzi. Bingham trovò a sua volta orsi, puzzole, vampiri, opossum, una quantità di uccelli di specie diverse, molte farfalle e anche lui parecchi serpenti. Vide fiumi il cui livello in poche ore potevano aumentare di 12 metri e che nell’antichissima roccia si erano scavati abissi profondi fino a 700 metri. Nugoli di insetti si addensavano attorno alla testa degli esploratori; nel fogliame gocciolante d’umidità vedevano brulicare millepiedi, salamandre, ragni velenosi e appunto serpenti che balzavano improvvisamente dall’alto per avvinghiare le proprie vittime. Un mondo ostile dove non era permesso il minimo passo falso, ma che proprio per questo aveva tenuto il segreto ben sigillato. Finché un giorno, sotto la selvaggia montagna Salkantay, all’ombra di vette di 6.000 metri, non trovò uno spiazzo isolato dal resto del mondo da una muraglia rocciosa alta 700 metri.
Confrontando la visuale con cronache di quattro secoli prima, continuò a setacciare la zona, percorrendo una strada e risalendo il fiume Urubamba con una barca. Infine trovò un uomo di nome Melchor Arteaga che lo informò di alcune rovine. Ma, esattamente come i marinai di Cristoforo Colombo, ormai i membri della spedizione si erano stufati. Sistemati in un accampamento in riva al fiume, la maggioranza si rifiutò di proseguire. Alcuni cercando semplicemente di recuperare le forze; altri facendo il bucato; altri ancora cacciando farfalle, che avrebbero potuto fruttare un buon guadagno. La mattina del 24 luglio si mossero dunque solo Hiram III, Arteaga e un sergente di nome Carrasco. Traversarono il fiume ruggente su un ponticello traballante, poi si infilarono nella boscaglia appoggiandosi su mani e ginocchia. La salita raggiunse il vertice a metà del giorno. In basso, il fiume tracciava un nastro più chiaro. Di fronte, la parte nord dell’abisso si stagliava nuda e grigia fino al cielo. All’improvviso, apparvero a sorpresa due indigeni con cappelli di erba, che sorridendo offrirono acqua. Mostrarono le loro capanne, e strani campi messi come sui gradini di una scala. “Sono come i campi-terrazza degli Incas” pensò Bingham, e chiese se c’erano rovine vicino. Uno dei due indios mostrò una sella montana che li sovrastava e offrì suo figlio come guida. Il ragazzo si avviò sicuro attraverso cespugli spinosi e bambù, fino a quando non comparve all’improvviso un muro bianco. Rigirandosi meravigliato, Bingham si accorse che c’erano mura e terrazze dappertutto. “Dio, che incredibile sogno”, esclamò.
La città perduta era stata ritrovata!