l'arte dell'invenzione
Altro che storie vere. Quanti difetti ha la realtà senza intelligenza narrativa
L'inganno dei racconti basati su fatti reali spiegato da Javier Marías. Inventare significa trovare, mentre la realtà sa sempre tutto, ignora le pause, tronca l'incertezza e trabocca di personaggi piatti
"La realtà è una cattiva romanziera.” Così parlò Javier Marías qualche anno fa in un’intervista alla Paris Review e si conquistò la nostra gratitudine eterna. “Eppure” – eccepiva in una lectio magistralis del 2015 al teatro Gobetti in occasione di un premio – “sono molti gli scrittori che si servono dei più vari espedienti per convincere i lettori che le vicende immaginate non siano tali. O che siano, come si suol dire, storie vere”.
Il che, tenendo il filo della premessa, equivarrebbe a dire con orgoglio: questo romanzo è stato scritto dalla peggior romanziera possibile. E a fondare tutto il discorso su una premessa sleale e contraddittoria, dato che alla fine chiunque scriva una storia (compresa quella di cui garantisce la veridicità) lo fa con gli strumenti dell’invenzione, che negano quelli della realtà. Tuttavia in molti resiste l’attrazione per la promessa “basato su una storia vera”. Ma cosa significa? Locuzione ambigua, giuramento marinaio, il mani avanti di una penna che tira indietro: a chi si rivolge, questa didascalia delle intenzioni?
“Basato su una storia vera”. Come dire: basato sulla noia e sull’assenza di criterio. “Basato su una storia vera”, cioè basato su qualcosa di cui è già stato deciso tutto, e non certo dalla più razionale delle intelligenze. Ma che cos’è una storia vera?
Ragionando in termini narrativi, materiale inservibile, già masticato. La realtà è sempre bocciata dalla pagina. “La realtà” – ragiona Javier Marías nella sua lectio – “non sa mai scegliere, non sa ordinare, non sa dosare. Ammette ogni intervento del caso senza battere ciglio, e del resto che altro può fare?” Già, cosa? Niente, proprio perché è la realtà: è lì giusto per non essere un racconto. E amen anche con le convinzioni dei naïf, quelli che canterellano: “Ho una storia da raccontarti, successa a un mio amico, è un romanzo già così!” Ma niente è un romanzo già così. Non lo è la vita di uno zio che si è guadagnato fama di personaggio leggendario ai pranzi di famiglia, a meno che – appunto – non si lavori di fantasia. Non lo è la disgraziata peripezia ospedaliera che ci ha rovinato la vita l’anno scorso – ma perché rovinarla anche al lettore? E non lo è la nostra miseranda biografia in corso – non lo sarà se anche la facciamo scodinzolare un po’ in una sinossi o la trasformiamo in quel menar gli ombelichi per l’aia cui abbiamo messo il nobilitante perizoma di “autofiction”.
“La realtà si beve le inverosimiglianze che in un romanzo o in un film ci farebbero ribellare con irritazione al grido di: come si permettono? Come possono pensare che io ci creda?”
Mozione Marías: lo scrittore è un manipolatore. E per fortuna. Perché per le storie vere c’è già la realtà ma per i romanzi ci sono i romanzi, prodotti dell’immaginazione a cui chiediamo proprio di essere manipolati. A ognuno il suo mestiere.
Ancora Marías sulla realtà senza intelligenza narrativa: “Guasta un mistero o tronca un’incertezza. A volte ignora le pause, a volte le allunga fino alla noia. Trabocca di personaggi piatti, situazioni senza tensione e dettagli inutili, come il menu completo di ogni commensale di un pranzo. Getta troppa luce o fa calare una tenebra così fitta che quella che sembrava una storia rischia di non esserlo, dato che si viene a sapere tutto di colpo, o niente”.
E poi c’è il senso etimologico della parola inventare, che significa trovare: scrivere è trovare ciò che non si sa, o per lo meno ciò che non si sapeva prima. La realtà, invece, sa sempre tutto. E’ didascalica, pedante, senza visione d’insieme. Oppure non sa niente. E’ stupida, stolida, e se ne vanta. Oh, la povera realtà.
A un anno dalla scomparsa sarà bello ricordare Javier Marías, attraverso le sue stesse parole, come uno dei più grandi alfieri dei sacrosanti diritti dello scrittore. A divertirsi. A non voler sapere. A tradire la realtà senza ritegno, consegnandosi come un lettore al destino del racconto.
“La prima persona a cui lo scrittore racconta una storia” – amava ripetere – “è sempre sé stesso.”