(foto Ansa)

Natalità

Madre non madre, la maternità è il tema delle lettere italiane

Ginevra Leganza

Scrittrici che si arrovellano invece di procreare, dive che confessano tormenti e pentimenti. Perché parliamo tanto dei figli che non si fanno

Figli non se ne fanno ma di mamme siamo pieni. E fortunati noi che viviamo nell’Eden delle madri biologiche, genitrici queer, delle mamme di cagnolini, gattini, bambini immaginari. Il fatto è che l’italiana pensa al figlio come lo stilnovista alla donna-angelo. Come a un essere che c’è e non c’è – perché non si fa – ma senza il quale muto è il pensiero, la parola, l’opera letteraria. E fortunati noi che viviamo quest’emancipazione al contrario: con le donne laureate che anziché dare il giusto peso (cioè poco) ai figli che fanno, si curano troppo di quelli che non fanno. E centrano il dibattito pubblico sul tema. Un’occasione unica per il sociologo che abbiamo dentro. Fortunati noi.

Che la maternità sia il tema, il motore immobile delle lettere italiane, l’ha dimostrato – e le letture sotto l’ombrellone lo confermano – il Premio Strega. “I libri s’inscrivono nel segno del trauma”, diceva quest’anno Melania Mazzucco, “trauma privato, personale, a volte segreto e indicibile”. Tradotto: si raccontano e si confessano storie vere di parenti invadenti (alla faccia del segreto e dell’indicibile!). Ma oltre il dolore c’è di più. Perché c’è soprattutto il rovello dell’essere madre, in queste storie. La vincitrice Ada d’Adamo, morta poche settimane prima della vittoria, racconta in Come d’aria (Elliot) la sua vicenda di madre che assiste la figlia, Daria, affetta da una malattia cerebrale. Spiega che se avesse saputo della fatica avrebbe abortito.

L’altra donna “Strega”, Rosella Postorino, diserta l’autografia e scrive di ragazzini che nel 1992 vengono portati da Sarajevo in Italia per salvarsi dall’assedio e dai bombardamenti (Mi limitavo ad amare te, Feltrinelli). Crescono in autonomia, senza genitori (è una notizia). Ma ecco che – puf – “Omar – uno dei ragazzini – ha dieci anni e passa le giornate alla finestra sperando che sua madre torni: da troppi giorni non viene e lui non sa nemmeno se è viva”. E siamo a due. Fra mamme vive, morte, maledette, super garanzia è la mammite Einaudi. Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone è un vertice con patina dannunziana (la trama ha qualcosa dell’Innocente o del Trionfo della morte). Calandrone racconta la sé stessa abbandonata nel 1965 dai genitori. Ma soprattutto dalla madre: che la concepisce con un uomo diverso dal marito, che è accusata di adulterio e concubinaggio, che scappa da Palata (Campobasso, al tempo 3.000 abitanti e oggi la metà: scappano tutti), che partorisce a Milano, che perciò non trova lavoro ed espone la figlia per poi gettarsi nel Tevere assieme al padre (tra D’Annunzio e Wagner, il libro giusto per il ministro Sangiuliano, che può “provare a leggerlo”). 

E a proposito di mamme maudite, c’è ancora Romana Petri. Che già l’anno scorso pubblicava nientemeno che Mostruosa maternità (Perrone), “un viaggio nella parte più oscura e indicibile dell’universo femminile” (Medee di tutto il mondo, unitevi!). Il suo romanzo arrivato quinto allo Strega, quest’anno, è la biografia di Antoine de Saint-Exupéry. Nome che al subconscio dice una cosa sola: ragazzini che aspettano volpi, volpi che aspettano ragazzini. Insomma, figli adolescenti che leggono libri che piacciono alle mamme. Però la vita di Saint-Exupéry è interessante, direte: almeno non è il solito romanzo di donne per donne con donne, almeno Petri parla di un uomo. Sbagliato. Rubare la notte (Mondadori) racconta la storia d’amore dello scrittore con le donne e per le donne. Anche e soprattutto per una donna: mamma Marie. Ed eccoci fra cocchi di mamma, mamme degeneri, mamme pentite, mamme tristi. Dal “Viva la mamma” al “malgrado mamma” cos’è successo? Dai post Facebook di scrittrici per così dire eterogenee, si capisce che la faccenda è trasversale. E travolgente. Melissa Panarello, Melissa P., scrive ogni giorno dei figli – suoi e degli altri – dei dolori del parto come di una “mandria di bisonti” nella pancia, delle sciroccate alla Oliver Sacks che scambiano chihuahua per figlioletti. Raccoglie così feedback non solo della tastierista della porta accanto che ha letto 100 colpi di spazzola... Ma soprattutto di altre blasonate scrittrici: “Ma come? Gli animali sono anche loro nostri figli!”. 

E sarà che tutto questo discettare – mamma o non mamma? – è solo la lingua che batte dove il dente duole. E cioè: i libri infarinati di mammite sono scritti per potenziali mamme tormentate. Anche perché a leggere sono soprattutto le potenziali mamme tormentate, ovvero le ragazze. Istat alla mano, nell’ultimo anno il divario fra lettrici e lettori è aumentato. La percentuale di donne alfabeticamente attive nel 2022 è del 44 per cento; i maschi sono fermi al 34. “La distanza di genere in favore delle donne iniziò a manifestarsi nel 1988”, commenta il rapporto. Sarà cominciata allora l’èra del romanzo femminile, ombelicale. La novità degli ultimi tempi è nel passo avanti. Dall’ombelico all’utero, direttamente. Perché se scrivi un libro e sai chi ti legge – una donna, sono solo le ragazze a leggere – a maggior ragione dai a chi ti legge quello che vuole. Ai maschi daresti joystick e fantacalcio. Bitcoin, nel migliore dei casi. Alle femmine – istruite ma non emancipate – dai il dolce tormento. Il dolore o forse la catarsi di entrare nel mistero della maternità mancata, tormentata. “Che cosa vuol dire essere madre?”, si domanda la lettrice media. 

Un’amica già candidata allo Strega con un romanzo famigliare – ma non mi dire – ci disse una volta del suo progetto di congelamento degli ovuli, confessando di abbracciare ogni notte un pupazzo, di piangergli addosso e di sussurrargli: “Figlio mio! Figlio mio!”. E in quest’immagine del figlio agognato e della maternità psicotica c’è tutta l’eco del figlio-amoroso-giglio, del figlio-a-chi-m’appiglio: di stilnovismi aggiornati, appunto, di neonati-angelicati come nuove ossessioni letterarie. Tenera, comunque, l’amica. Non come chi nel sonno s’abbraccia al cuscino pensando e sussurrando chissà che cosa… E qui tocchiamo l’altro punto. Se le lettrici fossero un po’ più vispe, un po’ meno riflessive – per non dire psicotiche – se vivessero insomma senza intorcinarsi in pensieri che quasi mai diventano fatti – figli, in primis – certo l’editore sceglierebbe scrittrici più divertenti, trame immuni da mammite. Autografie movimentate, temperature alte. E invece no, ci toccano dilemmi esistenziali e temperature basali. Perché la cattiva ragazza è un personaggio caduto in disgrazia. E l’emancipazione si è fermata a Villa Giulia. Una prova? Metti una sera a Roma, al bar di una Feltrinelli Red, il salone da tè dove puoi sentire le signore parlare di primarie del Pd e vederle sfogliare modernariato di Lidia Ravera sulle età della donna (storia vera). Ecco, in un posto così, un caffè letterario che macina dibattito culturale, vuoi forse che le lettrici gettino dalla torre la cattiva ragazza, individualista, egoista, o quella affetta da mammite? Vince la psicosi di chi s’arrovella sull’età, ovvio. Di chi s’impantana nell’ambizione di un figlio mai nato, arrivato tardi, o in quello che di lei pensano gli altri (soprattutto quelli che fanno figli).

Vince nel dibattito pubblico chi intercetta il dramma collettivo. Dramma che adesso – adesso che nessuno ci obbliga più a procreare –  è più forte di prima. Perché evidentemente la chioccia, nell’italiana, è uno stato mentale. Perché a fare meno figli si è sempre in due: i maschi fanno anche loro meno figli ma non ne parlano, nessuno gliel’ha chiesto. Le femmine – dive, scrittrici, attrici – ne parlano. Ma appunto, chi gliel’ha chiesto? Sarà che c’è sempre bisogno di un tormento, e il nostro è il secolo del trauma e della traumatologia. Ma sarà pure che la natura – e la chioccia – bussano alla porta se aprendo l’Istat ogni anno è l’annus horribilis delle nascite e tuttavia, guardandoti intorno, non vedi che libri, monologhi, finanche reel di mamme mancate, traumatizzate, critiche o criticate, talvolta pentite. Oppure di “mamme dilettanti”, come dice Diletta Leotta nel suo “vodcast” in onda ogni lunedì e giovedì su YouTube e sulle piattaforme di distribuzione. Nei lanci su Instagram, Leotta si chiede se c’è un momento giusto per fare un figlio, se le “dinamiche di coppia” (con Loris Karius) cambieranno, se è stato davvero giusto o se non sia stato un azzardo concepirlo. E avanti con le domande esistenziali (chi sono? da dove vengo? dove vado?) ma in spirito chioccia. Mamma: essere o non essere? Ecco il dilemma. Se lo domanda, con Diletta, Elisabetta Canalis, che non ha vissuto bene la gestazione. E se lo domandano le Colombari, le D’Amico, le Marcuzzi. E insomma la questione mamme italiane-figli è demografica sì, ma è pure stilnovismo e romanzo giallo. Un mistero. 

E’ questo il paese in cui – fra mancate, pentite, chiocce mentali – c’è un eccesso di madri mentali e un Istat crudele che nel 2022 segna “nascite: meno 2 per cento”. E allora com’è possibile che pur senza figli si sentano tutte madri? Si sentano cioè come Chiara Francini, la comica fiorentina che all’Ariston monologava e poi si rivolgeva a un figlio immaginario, tipo Oriana Fallaci in Lettera a un bambino mai nato. Francini parlava al passeggino vuoto. “Sono una donna di merda – diceva – perché non so cucinare” (accidenti all’emancipazione) e ancora: “Spero tu sia gay, bambino, così non avrai problemi. O forse ne avrai di più” (passaggio importante che spiega quanto gli onanismi dei vipponi – dall’Ariston a Hollywood – portino all’orientamento sessuale dei minorenni che cambia come cambiano venti e maree). E il rimuginio è sempre nell’aria se giusto un anno fa approdava in Italia Pentirsi di essere madri. Storie di donne che tornerebbero indietro. Sociologia di un tabù (Bollati Boringhieri) dell’israeliana Orna Donath (e questa è l’altra faccia della sfera: da un lato c’è chi s’angustia perché non ne ha avuti; dall’altro chi scava in fondo al pentimento di averli fatti, i figli. Donath, di suo, è una donna “non-madre” che s’interessa di madri pentite, e dopo il suo libro è stato coniato l’hashtag “Regretting Motherhood”, che raccoglie frasi sull’insoddisfazione della maternità). 

A ogni modo qualcosa è successo se tanto si parla di figli che non si fanno (e se qualcuna pensa ancora alle cataste di piatti come noi penseremmo a un vecchio amore passato e mai dimenticato). Per vederci meglio c’è ancora I figli che non voglio (Mondadori) che raccoglie pensieri di chi vuol congelare gli ovuli, di chi esige “più rispetto perché non è madre”, di chi si dichiara “fautrice dell’agnosticismo procreativo”. E va bene che per vederci meglio, per capire “i figli che non vuoi”, dovremmo scomodare dottori di teologia. D’accordo, ma la domanda è: se non li vuoi, che bisogno hai di farcelo sapere? Nessuno. E forse è solo il sintomo di un meccanismo inceppato, questo parlarne. Di un progresso e di un benessere che non si è più in grado di sopportare. Perché alla faccia dell’emancipazione, la chioccia che è in te ti bacchetta: o mamma perfetta o niente; o tuo figlio viene al mondo col mondo in mano o niente. Non potrai mica lavorare e tirarlo su come viene, senza preoccuparti che sia sempre allegro, che sappia il tedesco, che ami la danza, suoni il clavicembalo. Sotto sotto lo sai anche tu che s’attaccherà a TikTok e non fingerà come te di amare i cinema arena. E allora meglio lasciar perdere. Meglio nutrirsi di romanzi e storie degli altri, di figli angelicati o inesistenti e dubbi esistenziali in forma di talk. 

Ed è successo insomma che, a furia di insistere (mamma o non mamma?), l’emancipata è più in catene di prima. Pensava di essersi liberata del patriarcato ma è vittima di un despota bambino che c’è e non c’è. Che esiste e non esiste. E se davvero non esisterà mai, che importa. Perché questa non è un’epoca di realismi. Già s’è detto: è il secolo del trauma e della fantasia. Dove i problemi reali – tipo le culle vuote – esistono. Ma solo in subordine ai problemi mentali. Se già quattro secoli fa le femmine colte – cape spirituali del femminismo tipo Artemisia Gentileschi – covavano nidiate di figli per poi tornare all’arte senza contaminarla di mammite, e se alla boomer può capitare di essere figlia di una donna che negli anni Sessanta lavorava, faceva figli, continuava a lavorare, faceva impresa, faceva altri figli e qualcuno lo affidava alle zie sterili o zitelle senza curarsene troppo, oggi la musica è cambiata. E dopo la crisi finanziaria e la crisi del maschio, entra in crisi pure la chioccia. E in questa crisi ci dimostra che esiste ancora. Ma l’emancipata era quella che per lavorare faceva figli di cui non si curava troppo o è quella che si cura troppo dei figli che non fa? Più che Mamma o non mamma, questo è il dilemma.

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