I libri degli altri/6
Ogni sfumatura una storia. Stoffe e romanzi di Lisa Corti, Nostra Signora del design tessile
L’Eritrea, il “fratellino” Matisse e l’ispirazione in ogni dettaglio. “Lawrence Osborne sa dire l’indicibile. Somerset Maugham da leggere all’infinito”
Con Katherine Mansfield parlavo, sentivo un’affinità che andava oltre la pagina”. “Quando leggi William Somerset Maugham è come se ce l’avessi seduto davanti. Vorresti solo chiedergli di restare lì, a intrattenerti all’infinito. Per conto mio, Il velo dipinto avrebbe potuto non finire mai”. “Graham Greene bravo ma rigidino. Nonostante questo l’ho letto tutto”. “Raymond Chandler è magia, dalla prima all’ultima pagina.” “Lawrence Osborne è uno scrittore perché sa dire l’indicibile”. “I libri li scelgo in base a quel che è scritto sul retrocopertina, ma solo se sono alla disperazione”. “Mai impazzita per Georges Simenon”. Ma anche: “Un giorno, al mercato di Keren, tra le mucche, io ho conosciuto l’organza”. Oppure: “Io e mia figlia sedicenne con diciannove dentisti: era il 1976 e fu la mia prima volta in India”. Ancora: “La perfezione non mi interessa, non mi è mai interessata”. “A Camilla Cederna piacevano molto i miei vestiti, ma lo sa? Non so tenere un ago in mano”. E soprattutto: “Non ho bisogno di vederli: io, i colori, li sento”. Passare una mattina con Lisa Corti – Nostra Signora del design tessile, Dama della stampa stilizzata, Pioniera dei fiori, dei caftani e delle righe che conquistò le pagine di Life – significa scoprire che il romanzo è lei.
E allora non puoi che caderne in balia, non puoi che ascoltarla in lieta ebetudine, occhio scotto, vittima d’incantesimo, ritrovandoti a fare incetta di incipit uno migliore dell’altro, con l’imbarazzo poi di doverli scegliere. Così – vinto – ammetti che forse è meglio non scegliere, meglio non centellinare, anzi, al contrario, quale cautela? Bisogna assecondarla, lasciarsi andare e divorare tutto, proprio come si divorano certe pagine che leggiamo e ci consegnano a mondi sconosciuti, e semmai sciorinarli, questi incipit fenomenali, e farli correre come una manciata di dadi, restituire questa generosità alla scommessa del racconto, esattamente come fa lei che, mentre parla tra le mura amiche della sua factory a Milano quartiere Porta Venezia (“c’è ancora il mutuo,” notifica sorridendo), stende su un tavolone, per la gioia degli occhi, un mezzaro via l’altro. Il mezzaro – si apprende – è un telo multifunzione che può essere usato appeso, steso come un copriletto oppure a terra (vale anche come tappeto) ma è soprattutto la sintesi tessile di una biografia, di un romanzo che comincia in Eritrea nel 1936, quattro anni prima che lei nascesse, quando i suoi genitori si trasferirono a Keren, “un giardino di manghi e agrumi circondato di terra rossa a milleseicento metri sul livello del mare”. Un romanzo che fa un passaggio in India in piena coerenza narrativa – “Bombay e Asmara sono sullo stesso parallelo” – e racconta un pezzo delle sfilate parigine degli anni Sessanta. “Nel 1966…” racconta Lisa Corti (mentre a te sovviene che il 1966, quel 1966, è lo stesso anno in cui Bob Dylan svolta elettricamente alla Royal Albert Hall ed esce Il buono, il brutto e il cattivo, giusto per definire il pattern mitologico dell’annata), “…nel 1966”, prosegue, “facevo le sfilate di Dior, ma quando mi proposero un contratto non lo firmai, non mi interessava per niente”. E infatti quel romanzo arriva fino a oggi e fino a qui, a Milano, via Lecco, in un emporio in centro che sembra una casa al mare.
Anche il lessico cospira a rafforzare la sensazione che Lisa Corti sia una donnaromanzo coi suoi bei diesis forsteriani (è tutto un citar piantagioni di tabacco, piantagioni di arachidi, il “color camelia”, l’India fatale) e quando parla del primo marito Neno Corti ecco che l’effetto, se possibile, si amplifica: aristocratico milanese, Visconti da parte di madre, “sbarcò da un mercantile che aveva viaggiato in Cina e in India” e si innamorò di lei e di Keren. Grande appassionato di “lampade di giada”, aveva alloggiato nella sua casa molti oggetti preziosi – casa detta “i tre tucul” (in brutale sintesi: trulli, ma eritrei; Neno li aveva collegati con tre bracci di muratura così da renderli un’unica residenza con cortile). E così, “portati dai suoi viaggi fiabeschi”, in quelle stanze “pendevano i velluti” ed erano ospitate “preziosissime ceramiche”, insomma, una wunderhaus con vista su imperiosi sicomori, eminenti baobab e la vasta calma del fiume Anseba, “un fiume enorme, bianchissimo. Neno lo vidi la prima volta in chiesa, io avevo un grande cappello ed ero vicino all’acquasantiera e lui mi guardava. Non seppi fare altro che scappare, aveva tredici anni più di me. I miei mi rassicurarono, quello era un tizio a posto, conosciuto, una persona per bene, uno studioso d’arte. Leggeva sempre libri sulle ceramiche e le porcellane. Ci sposammo a Milano, quando venimmo in Italia, nel 1961. Fu allo scoppio della guerra d’indipendenza eritrea”. Fino a quel momento, un’infanzia felice e tanti colori, una gamma infinita, il codice Pantone della natura viva. “Quell’esperienza fu determinante. Mi ha formato. Ha forgiato il mio modo di guardare alle cose. Nel frattempo, però, non solo natura: mi appassionai fin da giovane alla lettura, e la lettura mi ha fatto compagnia per tutta la vita. Leggevo quel che si leggeva a scuola. Nelle librerie di Asmara – lo ricordo con vividezza – trovai La storia di Elsa Morante, che mi piacque moltissimo. Poi Primo Levi, Italo Calvino. Insomma, quello che leggevano i miei coetanei in Italia, né più né meno.
La letteratura mi ha sempre nutrito, ha fatto bene al mio lavoro e alla mia vita. Sempre stata una lettrice”. Che non disdegna il kindle: a casa sua, poco distante dalla factory e in un certo senso quasi indistinguibile dalla factory – ne è un prolungamento, stesso identico profumo – la aspetta un tablet gremito di libri. Non meno di quanto lo siano le bianchissime mensole: da un lato i romanzi, dall’altro i libri fotografici, coi tomi d’arte che l’hanno guidata e ispirata. Tra gli uni e gli altri, una foto di Ugo Mulas che la ritrae giovanissima e fotomodella, sottile e sdraiata mentre sbircia faccia in giù tra le fenditure di una scultura di Cascella a Villar Perosa; e poi un’altra, un velo amaranto in testa e un cane in braccio, vaga somiglianza con Kirsten Dunst ma lei – lei Lisa Corti – molto più bella. Del resto lo è anche oggi, che ha 83 anni e tutta un’artiglieria di occhiali con catenella mentre sbircia la propria libreria e indossa, con un’eleganza così naturale da sembrare inevitabile, un gilet maschile indiano double face – la chiacchierata comincia con la face amaranto e finirà con la face blu, tra un tè e l’altro. I volumi si susseguono. Chinese dress. Kimono, i colori del Giappone. Japanese pattern. Iranian textiles. Molti volumoni di fotografie sottolineati e chiosati. E poi Arabesque. “Sì, Matisse è stato il mio fratellino, il mio riferimento costante, la mia ispirazione. Vede? Le atmosfere mediterranee, la luce, gli azzurri. Li ho portati nel mio lavoro”. Dalle pagine di ogni libro fanno capolino linguette colorate, lembi di Post-it, alette versicolori che sbucano – ogni segno, un’idea, ogni idea, un nizam. Oriental flower. Ritratti di Steve McCurry. Textiles of India. Decorative art from the Ottoman Empire. Poi Marguerite Duras, L’amante della Cina del nord. E l’inseparabile Lawrence Osborne. “Ero amica di Roberto Calasso e me l’ha fatto conoscere lui. E’ una scoperta che mi ha appassionata. E se uno mi piace, io sono la classica che legge l’opera omnia. Sa cosa credo, pensando agli scrittori che prediligo? Che io abbia sempre bisogno, quando leggo, di sentire il mistero”.
Gli Osborne ci sono tutti. Nella polvere. Cacciatori nel buio. Bangkok. L’estate dei fantasmi. E Il regno di vetro – “forse quello che mi è piaciuto meno”. Poi si divaga e si torna a parlare dell’Eritrea, della giovinezza, ricordi come atti d’amore ma senza liricizzazione, amare l’Eritrea senza il mal d’Eritrea, anche questo è il romanzo in lei – i capitoli si succedono e non si rileggono: “Ci ripenso, certo. Ma come una componente della mia vita, senza alcuna nostalgia. La mia vita è qui, è questa”, ribadisce seduta nello studio dove lavora, un’ansa di chiarità a ridosso della sala ininterrottamente lisacortiana in ogni dettaglio, sala nella quale campeggia un cavallo curvilineo, massiccio e lucido di Angelo Barcella – forma pura, egizia o africana. La coerenza narrativa che Lisa Corti incarna e che la circonda ovunque lei si trovi ti porta a leggerla come predestinata alla vita che ha fatto, a questa letteratura di colori, a questa prosa floreale che sono i suoi tessuti, prosa che non degenera mai nella leziosità o nell’esuberanza esotica – tutto, nelle sue produzioni, sembra essere così leale. Il passato l’ha plasmata, ma il presente la ispira. “E tutto vuol dire tutto. Dettagli, cose. Oggetti. Anche il bottone della giacca di un’amica. Oppure… adesso la faccio ridere. Una sera stavo guardando ‘Montalbano’”. Appassionata di Camilleri? “No, troppo sornione. Se proprio devo, preferisco Gianrico Carofiglio. Dicevo: vedo Montalbano che siede alla sua scrivania e, di sfondo, alle sue spalle, una parete con dei colori. Mi sono subito piaciuti. La fantasia mi ha incuriosito, così l’ho fotografata e ci ho pensato tutta la notte. Ancora mi succede, sa? Quando le idee si impossessano di me, non dormo. La mattina dopo, sveglia presto e mi sono messa al lavoro”. Sembra sapere sempre quello che vuole. Ma da una che si è sposata a vent’anni, a ventuno ha fatto una figlia e a ventidue si è chiesta “e adesso?” (se l’è chiesto e ha subito risposto) non ci si può aspettare altro. Poi c’è la libertà, certo. C’è l’imprevedibile. Com’era quella delle mucche e dell’organza? “Al mercato, tra le mucche, vedo questo grande bancone. Sotto non ci guardava nessuno, ma c’erano alcuni rotoli di tessuto di organza. I colori… Ricordo ancora i colori! Mi cavavano gli occhi tanto erano belli, vivi, intensi. Così comprai venti metri di ognuno. Me li sono portati in Italia e, studiandoli, ho capito che mettere un giallo insieme a un verde e poi circondarlo con un rosso poteva essere stupendo. Nuvola e materia. Ho cominciato a fare questi mandala… E mi sono resa conto che la mia forma era il mandala. Poi i fiori. Le dirò, a me interessava molto il tessile per l’arredamento, più che i vestiti. E l’India è stata importantissima. In un anno ci andai quattro volte. La prima fu come un ritorno. Mi sentii come un pesce che ritrova la sua acqua.
C’era mia figlia con me, e tutti quei dentisti – mi ero aggregata all’ultimo momento a un viaggio organizzato dal mio amico Antonio Monroy. Da quel momento tutto ha preso una forma nuova. Le vede le mie stoffe?”, dice mentre le sfoglia come un libro. “Sono tutte stampate con blocchi di legno, a mano. Un fiore può arrivare ad avere nove colori, una lavorazione dopo l’altra. E non ne vengono mai due uguali. A volte la differenza la fa anche solo l’umidità dell’aria”. La singolarità è valore in sé. E Lisa Corti è un giudizio chiaro dopo l’altro, mai troppe perifrasi anche quando parla di romanzi. Quando un autore non le piace, non gli dà opportunità. O ci si incontra, o no. Rilegge poco. “Ma La montagna incantata, però, sì. Forse rileggerò anche la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli”. Snocciola, una dopo l’altra, le sue legittime sentenze da lettrice. “Emmanuel Carrère: L’avversario è il migliore, una storia incredibile. I baffi, invece, non mi è piaciuto. La verità sul caso Harry Quebert non mi ha lasciato nulla, ma sa cosa vuol dire nulla? Un po’ come Elena Ferrante. Ne ho letto qualche pagina, ma niente, non è riuscita a trattenermi”. Poi indugia su Tempo di uccidere di Flaiano. “Questo sì che è un capolavoro. Che ambientazione secca, piena di vuoti”. Sbirciando, una sorpresa: Eredità di Lilli Gruber. “Mi interessa”, sorride. “Ne ho letto metà. Le storie di famiglia mi interessano sempre”. Come La saga dei Cazalet. “Che dal punto di vista della scrittura non sarebbe nelle mie corde, ma li ho letti volentieri, uno via l’altro, diciamo che vanno da soli…”. Altro punto morto: Danubio di Claudio Magris. “Non l’ho mai finito. Per un po’ ho pensato che l’avrei ripreso, ma non so, adesso non credo. Questo, invece, lo rileggerò sicuramente”. Si tratta niente meno che de La scoperta di Troia di Heinrich Schliemann. Al momento del congedo, sulla porta, dopo un’escursione semantica tra tutte le possibili sfumature dell’amaranto, gran finale identitario: “Forse sono una lettrice di superficie. Ma sono senza dubbio una lettrice”.