facce dispari
“L'irrazionale e la cultura italiana tra seduzione e rimozione”. Intervista a Fabio Camilletti
"L’editoria nazionale è pigra per la sua irrilevanza economica. Vende un numero di copie limitato a un limitato numero di lettori, sempre gli stessi, perciò è inevitabile che ci sia poca tensione verso le novità, tanto non c’è speranza di raggiungere pubblico nuovo"
All’Italia del canone dispari, alla “Italia lunare” (titolo di un saggio che firmò qualche anno fa), Fabio Camilletti ha dedicato le attenzioni di studioso e docente. Marchigiano del ’77, laurea a Pisa, insegna letteratura italiana all’università di Warwick a Coventry. Il suo corso di maggior successo è incentrato sul gotico che “non fu solo patrimonio anglosassone”, ma ha lasciato un segno anche nella narrativa nostrana. Malgrado “l’irrazionale” sia stato un imbarazzante bollino per gli autori italiani, la sua aura spira tra i classici e sul classico dei classici: ‘Manzoni gotico. Tre itinerari illegali ne I promessi sposi’ è il libro di cui Camilletti ha appena terminato la stesura.
Per quale ragione il canone letterario italiano ha compresso l’irrazionale?
Sin dagli esordi dell’identità nazionale le nostre élite hanno abbracciato la modernità purgandola dalle derive irrazionali in nome della ragion poetica, del criterio di misura sancito nel Settecento. Ha prevalso un romanticismo senza gotico, una spettralità senza fantasmi, una psicoanalisi senza inconscio. Gli stranieri invece arrivavano in Italia e s’accorgevano della magia popolare, dei miracoli, dei guaritori di campagna, del culto purgatoriale, dei terrori gesuitici. E Horace Walpole ambienta il primo romanzo gotico nel castello di Otranto.
Rimozione incompleta, perché l’irrazionale è continuamente riaffiorato.
Ma con pudore. Le esperienze soprannaturali sono tra le poche cose di cui c’è ancora ritegno nel parlare perché ci raccontiamo la storia in maniera teleologica, come se al progresso debba corrispondere la cancellazione dell’irrazionale. La letteratura gotica, diffusa già nell’Ottocento in modo picaresco, con edizioni clandestine e traduzioni pirata, ha garantito libertà di parola su alcuni temi, quando tutto ciò che puzzava di antiscientifico veniva silenziato.
Persino Italo Calvino, con la sua vitrea geometria, si lasciò sedurre nel ‘Castello dei destini incrociati’ dalla tentazione dei tarocchi.
Come Manzoni: due nevrotici che subivano la fascinazione dell’irrazionale, ma esercitarono una vigilanza chirurgica sul proprio incandescente materiale interiore. Calvino, considerando anche la sua influenza ideologica sulla cultura nazionale, ha addirittura svolto un ruolo da gatekeeper per evitare che la letteratura prendesse certe pieghe. Però nell’opera più bella, che non è la sua, la raccolta delle ‘Fiabe italiane’, tradisce forte sintonia con le forme popolari del meraviglioso.
Malgrado l’elisione dell’irrazionale, molti grossi nomi vi si sono affacciati.
L’elisione non riguardò gli autori, ma le tematiche. L’antropologo Ernesto de Martino, storicista e comunista, mise nero su bianco l’interesse per la metapsichica ma si è preferito leggerlo in un altro modo. Eppure basta guardare la bibliografia di ‘Mondo magico’ per comprendere i testi cui dava importanza. Le cose andavano diversamente nel mondo anglosassone: il filologo Eric Dodds, ne ‘I greci e l’irrazionale’, parla apertamente di parapsicologia per spiegare voci e visioni divine.
Lei sostiene che in Italia gli anni sessanta furono segnati dall’irrazionale, anche se non sono ricordati per questo.
Sfogliando i rotocalchi di allora si capisce il peso che ebbero lo spiritismo, le presunte apparizioni di Ufo, le fattucchiere. In letteratura si possono citare nomi come Giorgio Vigolo per la Roma fantastica, Dino Buzzati per gli incontri con i medium, le storie di spettri di Mario Soldati, il gioco spiritico di Bassani nel ‘Giardino dei Finzi-Contini’. Per non dire di Fellini con ‘Giulietta degli spiriti’. L’alfa e l’omega di quelle tematiche esploderà a livello popolare con lo sceneggiato ‘Il segno del Comando’ nel 1971.
Oggi gli scrittori italiani questi aspetti, più che rimuoverli, li ignorano.
L’editoria nazionale è pigra per la sua irrilevanza economica. Vende un numero di copie limitato a un limitato numero di lettori, sempre gli stessi, perciò è inevitabile che ci sia poca tensione verso le novità e che si scelga di cavalcare i successi, dalla giallistica all’autofiction, tanto non c’è speranza di raggiungere pubblico nuovo come accade agli scrittori anglosassoni, che aspirano all’approdo su Netflix. Esiste tuttavia un mercato che brulica nell’underground, come forse è giusto, perché il gotico per sua essenza è sempre stato un po’ piratesco. Ma ogni tanto qualcuno, come Danilo Arona, sfonda nel mainstream.
Il fantasy importato però trionfa sempre, anche quello d’autore. Cosa pensa della ritraduzione di Tolkien?
Tutte le traduzioni invecchiano, come quella della Alliata. Questa di Fatica riproduce meglio gli intenti dell’autore: il suo orizzonte linguistico fu trasferito in italiano con il lessico medievaleggiante tipico della nostra tradizione, che spogliava la lingua tolkeniana della sua germanicità. La nuova traduzione gli si avvicina di più. Lo stesso varrebbe per Harry Potter: se Slytherin diventa Serpeverde perde la secchezza, la voluta antipoeticità originale.
Sussiste ancora una coloritura politica per autori come Tolkien o Ende?
Per molto tempo, più che agli scrittori ci si è attenuti a chi li aveva mediati nella nostra cultura. La verità è che l’imperativo del realismo e la dicotomia con l’irrazionalismo hanno rappresentato più un patrimonio dell’establishment che delle frastagliate basi giovanili, anche a sinistra dove magari si guardava alle spiritualità orientali o all’epica di ‘Star Wars’. Ma oggi qualsiasi distinzione mi pare irrilevante.