il ritratto
Il peccato di Oppenheimer
Dietro la bomba c’era una personalità a tratti oscura. Il veleno, il deserto e la hybris del Dostoevskij della fisica
Nel marzo del 1926, quattro studenti di Cambridge sono in vacanza insieme in Corsica. Camminano, vanno in bicicletta, discutono di letteratura. “Dostoevskij è il più grande”, afferma uno di loro con sicurezza, “parla dell’anima e del tormento dell’uomo”. Una sera, al ristorante, lo stesso studente è visibilmente inquieto. Il cameriere gli comunica l’orario del prossimo traghetto. Gli amici sono stupiti, forse pensano a questioni di cuore. Solo dopo molta insistenza da parte loro, lo studente rivela il vero motivo della propria partenza anticipata. Prima di partire, spiega, ha iniettato delle sostanze velenose in una mela e l’ha lasciata in bella vista sulla scrivania del suo odiato supervisore a Cambridge, il fisico Patrick Blackett. Deve tornare per controllare che Blackett sia ancora vivo. I tre amici rimangono sconvolti, pensando ai giorni spensierati trascorsi con lui mentre qualcuno rischiava di morire a causa sua. Come ha scritto Sam Kean, “era il primo sguardo nell’anima oscura, contorta e dostoevskiana di Robert Oppenheimer”.
Julius Robert Oppenheimer era nato a New York nel 1904 in una famiglia colta e benestante. Il padre, un ebreo tedesco, era arrivato a New York a 17 anni senza soldi e sapendo a malapena un po’ di inglese. Qui aveva fatto fortuna importando tessuti e aveva sviluppato il gusto per l’arte, riuscendo ad acquistare opere di Van Gogh e Renoir tra gli altri. La madre, americana di origini ebraiche, era un’esperta d’arte che aveva studiato anche a Parigi.
Robert ha un fratello minore, Frank. A scuola scopre la passione per la fisica, ma anche per la letteratura e la cultura classica. Da ragazzo è timido e poco socievole, talvolta maltrattato dai coetanei. Quando si diploma, riceve in dono una barca con cui scorrazza impavido con il fratello. “Sviluppò un gusto per il pericolo” secondo il fisico Isaac Isidor Rabi citato nella biografia di Abraham Pais, “non era uno scavezzacollo, ma in qualche modo doveva sfidare qualche sospetta debolezza dentro di sé” (J. Robert Oppenheimer. A Life, trad.it Oppenheimer, Mondadori, 2023; l’altra biografia di riferimento è quella di Kai Bird e Martin Sherwin che ha ispirato il regista Christopher Nolan, American Prometheus, pubblicata in Italia da Garzanti con il titolo Oppenheimer). Nell’estate del 1922, per riprendersi da un problema di salute, trascorre un periodo nella Pecos Valley del New Mexico, nelle montagne Sangre de Cristo a nord di Santa Fe. Qui impara ad andare a cavallo, diventando rapidamente molto abile. Nella sua prima escursione oltre il Rio Grande arriva alla scuola del Los Alamos Ranch, rimanendo affascinato da quei luoghi scabri e aridi.
Diplomatosi in anticipo sui tempi, entra ad Harvard per studiare chimica ma viene attratto dalla fisica sperimentale. Anche qui completa gli studi in tempi record, senza tralasciare la passione per la letteratura che lo porta a scrivere brevi racconti. Ma anche Harvard gli va stretta: Robert vuole avvicinarsi al cuore del dibattito contemporaneo nella fisica teorica, dove sono anni di grande effervescenza e cambiamento. Si presenta a Cambridge al grande Ernest Rutherford, che però non è molto convinto di accoglierlo nel suo gruppo; Robert va allora a lavorare con un’altra figura storica, Joseph John Thomson, scopritore dell’elettrone, premio Nobel per la fisica nel 1906. Nel periodo a Cambridge Oppenheimer è inquieto, soffre il lavoro di laboratorio a cui è costretto, la lontananza dalla famiglia, le lezioni che lo annoiano. A quel periodo risale il controverso episodio della mela avvelenata lasciata sulla scrivania di Patrick Blackett (forse risalente alla fine del 1925, forse il veleno non era letale; in ogni caso Blackett sopravvisse, ebbe un ruolo chiave nelle strategie militari inglesi durante la Seconda guerra mondiale e ricevette il premio Nobel per la fisica nel 1948 per il suo lavoro sulle camere a nebbia e i raggi cosmici). Qualcuno riferisce la cosa ai vertici universitari, che vorrebbero far inquisire Robert per tentato omicidio. Provvidenziale l’intervento del padre che riesce a calmare le acque, impegnandosi a far seguire il figlio da uno psichiatra.
Cambridge comunque in quel periodo è un concentrato di eccellenza nella fisica: oltre ai già citati Rutherford, Thomson e Blackett ci sono anche Paul Dirac, James Chadwick e Max Born, tutti futuri premi Nobel. E’ proprio grazie a Born che Oppenheimer continua la sua galoppata senza sosta, stavolta verso Göttingen in Germania, altro straordinario centro nevralgico per la scienza dell’epoca. L’anno passato a Göttingen si rivela infatti estremamente produttivo: pubblica cinque articoli di cui uno proprio con Born sulla teoria quantistica delle molecole che diverrà uno dei suoi lavori più citati. Nella primavera del 1927, ancora una volta in tempi rapidissimi, difende la sua tesi di dottorato. Si dice che durante la discussione di quella tesi il più nervoso non fosse, come sarebbe lecito attendersi, il candidato, ma il presidente della commissione, James Franck, preoccupato che a un certo punto fosse Oppenheimer a fare una domanda a lui, e non viceversa. A Göttingen emerge con chiarezza un altro tratto del carattere di Robert: l’arroganza. Ricorda lo stesso Born: “Era un uomo di straordinario talento ed era consapevole della sua superiorità in un modo che era imbarazzante e creava scompiglio. Durante il mio seminario sulla meccanica quantistica interrompeva continuamente il relatore, chiunque fosse, me compreso, balzando alla lavagna, prendendo il gessetto e dicendo: questo si può fare molto meglio nel modo seguente…”
Un episodio di tubercolosi lo porta di nuovo a soggiornare nell’amato New Mexico, dove decide di acquistare un ranch. “Fisica e terra deserta, i miei due grandi amori” dirà un giorno. Torna in Europa, stavolta a Leida e al Politecnico Federale Zurigo, per tornare poi negli Stati Uniti come professore, a Berkeley e CalTech, “il periodo più felice della sua vita se mai ce n’è stato uno”. Qui “praticamente da solo”, secondo il fisico Hans Bethe, “crea la più grande scuola di fisica teorica che gli Stati Uniti abbiano mai avuto… più di chiunque altro fu responsabile nel trasformare la fisica americana da provincia dell’Europa alla leadership mondiale… la maggioranza dei migliori fisici americani degli anni Trenta fu formata prima o poi da Oppenheimer”. Le discussioni con gli studenti continuano nei ristoranti messicani di Oakland, nei locali di San Francisco o in attesa dei traghetti notturni per tornare a Berkeley, spesso persi nella foga delle discussioni. In quel decennio Robert pubblica importanti contributi che spaziano dalla fisica delle particelle alla cosmologia. E’ il primo, tra l’altro, a prevedere “implicitamente” l’esistenza del positrone e dell’antiprotone, poi effettivamente scoperti in seguito. Nel 1939 con il suo studente Hartland Snyder pubblica l’articolo “On continued gravitational attraction”. “Quando tutte le fonti termonucleari di energia sono esaurite, una stella sufficientemente pesante collasserà; ne segue una contrazione che continuerà all’infinito”. Nasce così la fisica dei “buchi neri”, anche se il termine arriverà solo nel 1967.
Negli anni Trenta Robert perde prima la madre, poi il padre. E’ legatissimo al fratello Frank, anche lui fisico, con cui passa parte dell’estate nel ranch del New Mexico. Studia il sanscrito, legge la Bhagavadgita contenuta nel poema epico Mahabharata e continua a interessarsi di letteratura, mantenendo a lungo la più completa indifferenza per l’attualità e la politica. “Non avevo mai letto un quotidiano o una rivista; non avevo né radio, né telefono; seppi del crollo della borsa nell’autunno del 1929 solo molto dopo; la prima volta che votai nelle elezioni presidenziali fu nel 1936 […] ero interessato all’esperienza umana; ero profondamente interessato alla mia scienza; ma non avevo nessuna comprensione delle relazioni tra persone e società”. Nel 1936 il suo atteggiamento cambia radicalmente, forse anche a seguito della relazione con Jean Tatlock, una dottoranda in psichiatria molto attiva nell’ambito della sinistra. Robert si appassiona alla causa repubblicana durante la Guerra civile spagnola e partecipa a varie manifestazioni anche dopo la fine della difficile relazione (la Tatlock si suiciderà nel 1944). Nel 1939 incontra Katherine Puening, all’epoca già al terzo matrimonio. Si sposano nel 1941.
La svolta decisiva nella carriera e nella vita di Robert avviene l’anno successivo. La figura chiave è quella del generale Leslie Richard Groves. Nel 1941, Groves è stato incaricato di supervisionare la costruzione del Pentagono. Il 17 settembre 1942 gli viene chiesto di accantonare ogni altra attività per dedicarsi al “Progetto Manhattan”, la realizzazione della bomba atomica. Deve innanzitutto trovare un responsabile scientifico. Oppenheimer non sembra un candidato ideale: non ha esperienza organizzativa e non ha la credibilità di un premio Nobel. Gradualmente, tuttavia, si conquista la fiducia di Groves rispondendo a tutte le sue domande. Le potenziali ombre sul suo attivismo politico vengono cancellate con un tratto di penna dal generale. Oppenheimer convince Groves che serve un luogo in cui gli scienziati possano stare fisicamente insieme per lavorare al progetto, e che debba essere una zona isolata. Si valutano diverse opzioni, finché Robert porta il generale a Los Alamos. Inizia così il più colossale sforzo scientifico-militare della storia. E se su quanto sia stato essenziale il ruolo di Oppenheimer gli storici discutono ancora, su Groves nessuno ha il minimo dubbio: senza di lui il progetto non sarebbe stato portato a compimento. Il 16 luglio alle 5:30 del mattino, Fat Man, una bomba al plutonio di cinque chilogrammi, incendia il cielo nella base aerea di Alamogordo, nell’area nota come Jornada del Muerto, 300 miglia a sud di Los Alamos, in un sito che lo stesso Oppenheimer battezza “Trinity”. Mentre gli altri presenti accennano una risata o un pianto liberatorio, a Robert torna in mente un passo dall’amata Bhagavadgita, conforto nei momenti più difficili di quei mesi frenetici: “Adesso sono diventato Morte, il distruttore di mondi”, allorché Krishna invita Arjuna a compiere il proprio dovere di guerriero. Ben più prosaici i commenti del responsabile del test, Ken Bainbridge (“Ora siamo tutti figli di buona donna!”) e quello di Groves (“Questa è la fine della guerra tradizionale”). L’immagine di Robert che si allontana rimane impressa a Rabi: “Non mi dimenticherò mai il suo modo di camminare; non dimenticherò come salì sulla macchina […] era una camminata alla Mezzogiorno di fuoco. L’aveva fatto”.
Il 6 agosto, dopo la bomba su Hiroshima, Oppenheimer solleva le mani come un pugile vincente di fronte a un auditorio festante a Los Alamos. Inizia per lui una nuova fase di grande visibilità e influenza politica, in cui insieme ad altri scienziati mette fin da subito in guardia sull’importanza di accordi internazionali per il controllo delle armi atomiche. “I fisici hanno conosciuto il peccato” dirà due anni dopo. Una volta terminato l’incarico a Los Alamos, tenta dapprima di riprendere la normale attività di ricerca e insegnamento ma sono ormai troppi e troppo impegnativi gli incarichi di consulenza politica e militare. Così accetta l’incarico di direttore dell’Institute for Advanced Studies di Princeton che in quegli anni annovera tra i propri membri colossi come Einstein accanto a giovani promesse come il fisico inglese Freeman Dyson. Ma la sua vena creativa, tanto vivace in gioventù, si è ormai inaridita. Dopo la fine della guerra, pubblicherà solo altri cinque articoli. Nel 1954, tirando in ballo il suo passato di attivista politico e la militanza del fratello Frank e della moglie di lui nel Partito comunista, viene accusato di essere una minaccia per la sicurezza nazionale. Inizia una vicenda contorta e umiliante (lui stesso testimonia contro altri colleghi sospettati) che lo mette ai margini della scena politica e pubblica. L’amico Freeman Dyson la riassume così a seguito di lunghe conversazioni con Oppenheimer, che si era attirato forti critiche per la sua opposizione al progetto di bomba all’idrogeno. “Si era trovato in mezzo a una battaglia tra l’esercito e l’aviazione. L’esercito voleva bombe piccole per distruggere eserciti invasori. L’aviazione voleva bombe grandi per distruggere intere nazioni. L’esercito voleva bombe a fissione e l’aviazione voleva bombe all’idrogeno. Oppenheimer era dalla parte dell’esercito. Per questo promuoveva armi tattiche, e per questo si opponeva allo sviluppo della bomba all’idrogeno”. Ancor più drastica la sintesi di Einstein: “Il guaio di Oppenheimer è che ama una donna che non lo ama: il governo degli Stati Uniti”.
Nel 1965 gli viene diagnosticato un cancro che lo porta alla morte nel giro di due anni. Sempre Dyson: “Aveva un’abilità unica nel mettersi nei luoghi e nei momenti in cui accadevano cose importanti, quattro volte nella sua vita. Nel 1926 era a Göttingen, dove il suo professore Max Born era uno dei leader della rivoluzione quantistica che trasformò la nostra visione del mondo subatomico. Nel 1929 era a Berkeley, e con lui creò una scuola di fisici subatomici che sottrasse la leadership all’Europa. Nel 1943 era a Los Alamos a costruire le prime armi nucleari. Nel 1947 era a Washington a capo del General Advisory Committee della US Atomic Energy Commission, consigliando leader politici e militari ai massimi livelli. Era guidato da un’ambizione irresistibile a giocare un ruolo di punta negli eventi storici. In ciascun caso, quando era presente al centro dell’azione, assunse l’incarico con competenza inaspettata. L’altra faccia di questa abilità e bruciante ambizione era la costante irrequietezza, l’incapacità di coltivare sufficientemente a lungo lo stesso argomento, sempre pronto a scattare verso la tappa successiva come uno dei tanto amati cavalli del New Mexico.
Non è un caso che il regista Christopher Nolan collochi all’inizio del film l’episodio giovanile della mela avvelenata lasciata da Oppenheimer sul tavolo di Blackett, salvo poi tornare di corsa a verificare che fosse ancora vivo. Metafora fin troppo facile di un’esistenza costantemente inquieta e travagliata, sempre in bilico tra ambizione, responsabilità, senso di colpa e follia, e di quel frutto atomico avvelenato che egli contribuì a realizzare.