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Rivoluzione Gentile

James Bradburne racconta i suoi otto anni da direttore della Pinacoteca di Brera

Maurizio Crippa

Un museo per servire il popolo. Viaggio nel “Louvre italiano” voluto da Napoleone. La riforma, il turismo globale, Milano. Idee illuministe per governare la cultura

 

“Bisogna che tutti sentano come questi luoghi appartati e solenni siano invece al centro del progresso e del ritmo della vita moderna, non catasti e cimiteri di glorie… ma idee per nuove conquiste dello spirito e della intelligenza”

(Franco Russoli, “Il museo nella vita”, 1956).

  

“Brera non è l’hortus conclusus del collezionista, il museo delle ‘preziosità’: Brera è una galleria nazionale creata da Napoleone a ‘educazione del popolo’ secondo un profondo pensiero illuministico che noi, eredi, non possiamo tradire” (Fernanda Wittgens, 1957).
“Oggi i musei vengono classificati secondo routine come ‘industria del tempo libero’ e valutati, se proprio è necessario, solo per la loro capacità di generare entrate di tipo turistico” (James M. Bradburne).


Perché ci andiamo, nei musei? Cosa ci spinge su per quei lunghi scaloni, ci attrae dentro quelle sale piene di opere d’arte del passato? Solo una tacca da aggiungere alla photogallery delle vacanze? Solo il solletico di un appagamento estetico lieve e superficiale? In questi giorni di agosto 2023 la parola museo – anzi “i musei”, plurale generico – è al centro di tante esperienze e discorsi. C’è il ministro della Cultura Sangiuliano che snocciola soddisfatto i dati del tutto aperto (del resto i musei sono sempre aperti, a Ferragosto). Ci sono i flussi record e le code agli ingressi nelle città d’arte, anche nella caldissima Milano. C’è chi conta i biglietti e chi invece fa i conti con un turismo invasivo e non più sostenibile. Non è ora di trovare un modo nuovo per vivere e visitare un museo? Per farne un luogo di “nuove conquiste dello spirito e dell’intelligenza”?

Facile rispondere che è così; ma per percorrere la strada bisogna innanzitutto porsi la domanda giusta: che cosa è un museo? E darsi la risposta giusta non è così banale. “Questi anni alla guida della Pinacoteca e del complesso di Brera mi hanno convinto che lo scopo per cui esistono i musei si riassume in un’idea: servire il popolo”. Spinge indietro il ciuffo sulla fronte, aggiusta le maniche della camicia bianca leggera. Col suo ottimo italiano dall’accento inglese – che passerebbe tranquillamente le nuove restrizioni sovraniste per i futuri concorsi – James Bradburne non ha bisogno di ammiccare, di giocherellare con un noto e minaccioso slogan maoista. “Servire il popolo”, dice con convinto entusiasmo. E in mente ha soltanto la sua rivoluzione gentile: far diventare i musei luoghi vivi, aperti al loro territorio e ai cittadini, non solo istituzioni di conservazione.

E’ l’idea che ha provato a realizzare alla Pinacoteca di Brera e alla Biblioteca Braidense, che ha diretto per otto anni a partire dalla riforma Franceschini che nel 2015 cambiò l’ordinamento dei grandi musei: “Non sarò più al timone dal 1 ottobre, fine del mio secondo mandato”, ha detto pubblicamente qualche settimana fa. Rivendicando: “Negli ultimi otto anni abbiamo consolidato una serie di buone pratiche che hanno fatto di Brera un modello per il resto del paese”. L’agosto 2023 è anche quello in cui, per quasi tutti i direttori dei musei autonomi di interesse nazionale, si conclude un ciclo: per il direttore di Brera, per quello degli Uffizi, per quello di Capodimonte (a meno di improbabili proroghe temporanee: la macchina dei concorsi è in ritardo).

Nel suo ufficio, Bradburne ha già quasi ultimato il trasloco. Distende le lunghe gambe sotto il cristallo della scrivania stile Le Corbusier – sarà l’ultima cosa ad andarsene, perché è un regalo fatto da amici quando arrivò: sotto la scrivania stile impero del predecessore le gambe non ci entravano. Il momento per fare un bilancio, ma Bradburne non è il tipo di direttore interessato agli elenchi. Gli piacciono le visioni d’insieme, “le teologie”. Dice: “Lascio la casa in ordine”. Rendiconti, relazioni e persino gli appunti per il successore. Un po’ più che in ordine: basta un colpo d’occhio alle sale, al cortile dove per prima cosa (e non fu semplice) fece mettere delle panchine perché gli studenti dell’Accademia erano costretti a sedersi per terra. Bradburne non ama i grandi numeri, però qualche numero aiuta il colpo d’occhio. Chi se la ricorda soli otto anni fa, la preziosa e prestigiosa Pinacoteca di Brera – a cui sono collegati anche la Braidense, il Giardino botanico e l’Osservatorio astronomico – rivede un museo vecchiotto, un po’ buio, l’allestimento inadeguato. Si entrava in pratica da una porta di servizio, invece che da quella monumentale ora riaperta. Sono state riallestite 38 sale, realizzati 150 restauri, è stato ripensato il sistema delle didascalie – puntando a dialogare con i diversi utenti: ci sono didascalie scientifiche dei curatori, didascalie “d’autore”, didascalie per le famiglie, sperimentali didascalie tattili e olfattive. E’ stato rivoluzionato il sito web, creati i social, con un progetto di comunicazione il più open possibile. Il claim era ambizioso, del resto era un’idea di Franco Russoli, il grande innovatore che immaginò per primo, negli anni Cinquanta, la Grande Brera: “Riportare Brera al cuore di Milano e Milano nel cuore di Brera”. Missione compiuta, sorride Bradburne, “ora questo luogo è parte della città, dei milanesi. E chi viene da fuori sa che Brera è parte di Milano”. Comunque i biglietti, dal 2016 al 2023, sono stati 2 milioni e 400 mila. “Ma il punto non sono i biglietti, che certo sono importanti, un museo deve tenere in ordine anche i conti; ma oggi è sbagliato – la pandemia e la crisi climatica ce lo hanno insegnato – pensare che possa esservi ancora un modello di turismo globale come quello che abbiamo. Gente che salta sull’aereo, inquina, arriva, produce CO2, guarda e riparte. Serve un turismo consapevole, per questo bisogna domandarsi cosa è un museo. Io immagino un futuro in cui le persone non saltino sull’aereo, ma vengano qui solo quando sono pronte per farlo”. Discorsi che non tutti vogliono sentire, ma che sono al centro delle riflessioni mondiali. Lui ha provato.

Così è nata BreraPlus, la modalità di accesso virtuale alle attività del museo, che permette di partecipare anche a molte iniziative: concerti, conferenze, video, film e spettacoli autoprodotti. E da ultima è nata la BreraCard, un po’ visionaria: la trasformazione del biglietto in una tessera: si diventa abbonati, si può tornare più volte in un anno e anche utilizzare tutti gli strumenti online. “Il museo da sostantivo è diventato verbo e dialogo”, gli piace dire.
Quando arrivò aveva sessant’anni, era il giorno dopo il suo compleanno; diversamente da alcuni suoi colleghi non era alla prima direzione museale. Ora se ne va, a sessantotto, sempre il suo compleanno, e non ha polemiche da lanciare o recriminazioni da appendere ai muri. Il bilancio di cosa è stata e potrebbe ancora essere la riforma, se a Roma ci saranno orecchie disposte ad ascoltare, un ripensamento dell’idea di museo per il futuro. Questo sì. Se c’è un direttore immaginifico, fortemente motivato dal ruolo pubblico – “sono un ragazzo degli anni Sessanta”, dice si sé, cresciuto con un’idea espansiva e propositiva della cultura – con cui parlarne è proprio il direttore di Brera. Per fare il punto su otto anni di riforma vissuti un po’ rocambolescamente (in mezzo ci fu il disastroso tentativo del ministro gialloverde Bonisoli di disfare tutto) e oggi al vaglio di un governo che ancora non è chiaro che idea di cultura e di musei abbia.

“La riforma, sulla spinta del governo che la varò, era basata su due pilastri: vera autonomia, perché non ha senso che gli Uffizi debbano sottostare a qualsiasi burocrazia prima di poter fare un intervento – e in favore degli utenti e dello stato, sia chiaro! L’altro era il nodo del personale: poter avere e scegliere il personale adeguato, quando serve e non aspettando le calende dei concorsi, formarli, motivarli. Poter costruire una squadra, con i dipendenti e i collaboratori esterni”. E come è andata? “Alla fine bene, tra problemi e lentezze. Ma non è colpa di nessuno, quando arrivai in Italia la prima cosa che mi insegnarono fu: siamo in Italia. A capo della commissione che mi scelse c’era Paolo Baratta, grandissimo manager della cultura. Sull’autonomia mi spiegò subito che non sarebbe stata quella scritta nella riforma”. E il futuro? “Spero solo che non si perda lo spirito di cambiamento, di miglioramento, che ogni museo con la sua storia ha iniziato a proprio modo. Il rischio di ogni riforma è sempre arenarsi, senza nemmeno che qualcuno lo decida”.
Si torna al punto: che cosa è un museo? Quando decise di candidarsi per Milano “fu una serendipity. Ero arrivato nel luogo in cui dovevo arrivare”.

Si trovò subito sulle spalle di due giganti. Fernanda Wittgens, la prima soprintendente donna in un museo italiano, la prima nel Dopoguerra, che aveva salvato le opere d’arte e poi imposto l’immediata ricostruzione di Brera. Una visionaria. “Ma quando arrivai era una sconosciuta, non si trovavano più nemmeno gli scritti. Oggi c’è addirittura una fiction Rai che racconta la sua vita, e su di lei sono riuscito a far scrivere un libro: Sono Fernanda Wittgens. Una vita per Brera di Giovanna Ginex, perché è lei la pietra miliare della modernità di questo luogo”. E poi Franco Russoli, “ho trovato più di un amico, un padre e maestro. La sua idea di museo moderno, e poi di Grande Brera, sono ancora oggi le cose più avanzate che io conosca. E sono orgoglioso di dire che la prima cosa, la prima, che feci qui fu trovare un editore per i suoi scritti”. Ce n’erano alcuni buttati lì, nei corridoi, alla rinfusa. “Con loro  ho scoperto l’eccezionalità di Brera. La Pinacoteca (la Biblioteca è già intuizione illuminista di Maria Teresa, ndr) nasce da un’idea di Napoleone, che voleva fare il Louvre d’Italia. Cioè il grande museo per l’educazione del popolo. La radice del Louvre e di Brera è l’Illuminismo, l’educazione del popolo: servire il popolo”. Bisogna ripartire da lì. “Io credo che la riforma di cui siamo stati incaricati fosse questo, prima che la valorizzazione di siti e palazzi, che non è poi difficile: ci saranno sempre bei musei, belle collezioni, tanti visitatori. Il punto è un luogo che dialoghi con gli utenti (non ‘i turisti’) e con la città”.

Ci sono due cose di cui va fiero, e non sono innanzitutto le sale rifatte o l’invenzione dei pur importanti “Dialoghi” tra le opere d’arte (una già presente a Brera e una fatta arrivare, con un sistema di scambi intelligente): è fiero del lavoro con la squadra di Brera e di quello con i tassisti e i concierge. “Creare squadra. Autonomia è questo. Riunioni ogni settimana. E la mia domanda è sempre stata non chi ha l’idea più originale, ma: in che direzione va, questa idea? In quella del museo che vogliamo?”. Così sono nati anche i concerti (non musica per la musica, ma “quella” musica scelta per valorizzare una precisa opera) o la valorizzazione della biblioteca. E poi i tassisti: ci spieghi. “Fin dall’inizio, a ogni iniziativa, ho organizzato visite e incontri di presentazione per loro e per i concierge: voi siete il biglietto da visita di Milano, insistevo. Siete voi che dovete saper dire cosa è Brera. Non solo dove e a che ora, ma il suo cuore. Questo è portare Brera a Milano, se no basta TikTok”. Non basta allestire percorsi, organizzare flussi, bisogna avere in mente “una serie di buone pratiche”. Ad esempio formare nuovi profili professionali, conservatori ed educatori, storici dell’arte e architetti. Una caratteristica su cui Bradburne ha insistito, è un suo vivo interesse da molto tempo, è il lavoro sull’infanzia e con l’infanzia. Il Centro internazionale di ricerca per la cultura dell’infanzia (Circi), che ha sede a Brera, ha lavorato sulle collezioni donate alla Braidense, come la Collezione Adler di libri sovietici per l’infanzia (ne è nata una bella mostra ora disponibile su BreraPlus). O le collaborazioni con l’ospedale Buzzi per bambini. Bradburne cita spesso un proverbio africano, “occorre un villaggio per far crescere un bambino”, e continuerà a lavorare con la Fondazione Reggiochildren di Reggio Emilia in questo suo appassionato lavoro. Infine le collaborazioni con Vidas, con l’Humanitas, i percorsi per visitatori con Alzheimer e Parkinson, per gli ospiti delle case di riposo. 

E’ andata così per tutti i musei? “Credo che tutti i miei colleghi abbiano fatto bene e del loro meglio, questo è l’aspetto importante. Ma ognuno lo ha fatto attraverso la storia e le caratteristiche del proprio luogo. Capodimonte o gli Uffizi hanno ruoli e dimensioni diverse da Milano. Le problematiche erano diverse”. Anche questo dovrebbe essere tenuto in conto, in futuro. Inutile chiedergli del suo. E non solo per l’assurda della Brexit, che gli impedisce nuovi incarichi pubblici in Italia in quanto cittadino “non europeo”. E’ consapevole che la nuova guida del ministero ha una visione non così favorevole all’internazionalizzazione, e si limita a suggerire: “L’importante è la preparazione e la professionalità, dirigere un museo non è come essere un conservatore, uno storico dell’arte o un archeologo”. 

Crucci? Non c’è nemmeno da chiederlo, la vicenda di Palazzo Citterio, oltre vent’anni di intoppi nel progetto di quella che sarebbe dovuta diventare “Brera Modern”, la sede delle collezioni del Novecento che a Brera era state affidate. Più che un rimpianto: “Non pensavo davvero che sarebbe stata così difficile, così dura”. Aveva annunciato subito che il museo per le collezioni di arte moderna italiana sarebbe stato aperto in fretta. A maggio 2023 finalmente i lavori definitivi sono partiti, come le modifiche che Bradburne aveva chiesto per rimediare a gravi errori di progettazione. Sospira, una sospensione di delusione: “Alla fine arriverà, è importante avercela fatta. Ma purtroppo Milano non avrà il museo che voleva, la Grande Brera di Russoli”. Una parte delle collezioni ora ha trovato casa al Museo del Novecento di piazza Duomo, del Comune. “Palazzo Citterio è stato un pensiero, un sogno che abbiamo coltivato troppo a lungo. Abbiamo sognato per cinquant’anni, è stato un grande investimento quasi metafisico, teologico”. Ora non importa più se sia lì o altrove, “l’occasione persa per Milano è quella di avere il grande museo che meritava”. Se Brera è diventata un modello di che cosa può essere un museo, Palazzo Citterio è il monumento di come in Italia spesso si sprechino le grandi idee. Ma anche il tempo delle polemiche è terminato, resta quell’idea sempre più precisa, “servire il popolo”. Che non va perduta.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"