il ricordo
Tim Page, il più pazzo del Vietnam. Requiem al fotografo-soldato scomparso un anno fa
Autore di alcune delle immagini più iconiche del conflitto. Eccentrico anticonformista, il suo “terribile amore per la guerra” ispirò il protagonista di “Apocalypse Now”
“Come si fa a invidiare un morto?”. È un pensiero, un dubbio retorico, annotato oltre vent’anni fa al “Museo dei residuati bellici” di Saigon, prima conosciuto come “Museo dei crimini di guerra americani” e poi ribattezzato dopo il 1995 e l’arrivo dei primi turisti (reduci, perlopiù) dagli Stati Uniti. È un luogo inquietante, un campionario di orrori, per le immagini di torture o degli effetti del napalm, per l’esposizione di armi che hanno un’anima perché hanno ucciso.
La traccia più forte della guerra del Vietnam era trasmessa dalle immagini raccolte in “Requiem”, la mostra memoriale dei fotografi che hanno documentato le guerre in Indocina dagli anni Cinquanta alla caduta di Phnom Penh e Saigon nel 1975, centotrentacinque fotografi, famosi come Robert Capa e Larry Burrows, o quasi ignoti, tutti morti per scattare quelle immagini.
Continuavo a osservarle e a guardare le facce degli autori: ma quel senso d’invidia che s’insinuava come un nuovo peccato, quasi una bestemmia nel requiem per loro, era per le vite vissute pericolosamente in quei formidabili anni di cultura e controcultura, di Sex & Drugs & Rock & Roll.
Vite e anni incarnati perfettamente in Tim Page, il fotografo che aveva concepito quella mostra dopo averne fatto un libro (in cooperazione con un altro fotografo, Horst Faas, e pubblicato nel 1997). Faas, due volte vincitore del Pulitzer, era il responsabile dell’Associated Press che aveva insistito affinché venisse pubblicata quella che sarebbe divenuta la foto simbolo dell’orrore della guerra, la “Napalm girl” ripresa da Nick Ut, che molti volevano censurare perché la ragazzina fotografata era nuda.
Tim Page è morto il 25 agosto del 2022, stroncato dal cancro a 78 anni. A Melbourne sarà ricordato nella tradizionale conferenza di Aperture Australia, la più importante manifestazione fotografica dell’Emisfero sud. Tim ne era stato uno degli animatori, da che si era ritirato in Australia. Questa storia, che comincia con un ricordo di Requiem e continua nel ricordo di Page, “è una storia di vite interconnesse. Una storia che collega persone legate per un tempo, dalla guerra, dal dolore e dall'incapacità di dimenticare”.
La citazione è da The Last Helicopter: Two Lives in Indochina di Jim Laurie, che ha avuto la ventura di essere testimone di entrambi i “bugs out”, le evacuazioni americane da Phnom Penh e Saigon, quando era un giovane reporter per la Nbc News. E’ anch’essa testimonianza di quello stile giornalistico, di cui Page si faceva testimone, in cui l’esperienza personale, le storie individuali divengono parte della storia che si narra, senza reticenze per ciò che può apparire esotico, enfatico, comico, patetico o volutamente anticonformista (ecco perché lo slang, gli spinelli, le sbronze e la ripetizione come un mantra di “fuck” fanno parte dell’estetica di quel giornalismo). Nelle sue foto quell’estetica era il prodotto dell’intimità col rischio, della scarificazione della tragedia o del dramma individuale. Tim, poi, si era spinto molto oltre, aveva varcato il confine etico o conformistico che separa il giornalista di guerra dal soldato. Come avrebbe poi scritto accadde mentre era al seguito dei “berretti verdi” e si trovò di fronte un vietcong: “Non era il momento di fotografare o pensare all’esposizione. Era il momento di combattere”. Come fece. Sono episodi come questo, non si sa quanto reali o realistici, a trasformare Tim Page nell’eccentrico testimone di quel “Gonzo Journalism”. Ma per ironia della sorte, lui, che si dichiarava membro del club dei “vecchi giornalisti da strapazzo”, che con molti dei fotografi evocati in Requiem aveva condiviso sbornie, spinelli, passaggi in elicottero e il fango delle risaie vietnamite, è sopravvissuto ai suoi “Brothers in arms” per quasi mezzo secolo. Ironia della sorte perché lui era “il più pazzo dei pazzi fuori di testa in Vietnam”, come lo ha definito Michael Herr, che di quella guerra fu testimone nel suo libro Dispatches (1977), il testo forse più importante tra i memoriali del Vietnam, un viaggio “all’interno della coscienza” dei combattenti.
Ma la fortuna è un’amante capricciosa e se gli ha concesso qualche decennio in più, ha richiesto a Page un pesante tribuito. Tra il 1969 e il 1975 è stato ferito quattro volte, gli hanno dovuto asportare un pezzo di cervello. In seguito, avrebbe esorcizzato l’episodio indossando un berretto in cui aveva scritto “Dain Bramaged!” (come pensava potesse storpiare “Brain Damaged”, chi avesse il “cervello danneggiato”). Negli anni ha dovuto sottoporsi a ripetuti interventi per estrarre le 200 schegge che aveva in corpo. Tanto che il maggio scorso, quando si erano riacutizzati i dolori che lo avevano sempre accompagnato, per qualche tempo aveva sperato che fossero dovuti a una scheggia ancora in corpo. Quando i dottori gli hanno confermato che era un cancro che si stava diffondendo rapidamente ha deciso di evitare la chemioterapia e ha atteso la morte nella sua casa di Fernmount, tra la foresta e la costa del Queensland, ancora una volta “con uno spinello in una mano e un drink nell’altra” com’è stato scritto in un suo necrologio.
Come sarebbe piaciuto a Tim, è bello pensare che alla fine gli siano venuti in mente i versi di “The End”, la canzone dei Doors che è la colonna sonora di “Apocalypse Now”. “Questa è la fine, bella amica… La fine delle risate e delle bugie morbide…”. Probabilmente l’avrà cantata spesso, magari assieme a Jim Morrison, il frontman del gruppo con cui aveva condiviso il carcere in seguito a una rissa. Risate e bugie, con la disperazione e l’angoscia che risuonano negli altri versi che hanno segnato tutta la vita di Page.
Orfano di padre, abbandonato dalla madre, adottato pochi mesi dopo la nascita, nel 1944, a 17 anni parte per un viaggio che lo porta dall’Europa al medio oriente e poi India e Nepal sino all’Indocina. E’ il tempo dell’Hippie Trail, il viaggio intrapreso da molti giovani di quella generazione. La sua carriera di fotografo inizia nel 1965, quando scappa dal Laos in motocicletta per portar fuori dal paese le foto di un fallito colpo di stato. Da allora continua a muoversi in quel grande teatro che sarebbe stato trama e scenario di una guerra poi evocata rappresentata in ogni forma narrativa. Solo tre anni dopo la fine, nel 1978, escono i primi due film della serie che l’avrebbe trasformata in crogiolo di metafore esistenziali, denuncia politica, tragedie individuali e psicodramma nazionale americano: “Tornando a Casa” di Hal Ashby e “Il cacciatore” di Michael Cimino. “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola è presentato l’anno seguente. “Sembrerò cinico ma la guerra è stata un enorme spot pubblicitario”, ha detto al Foglio un operatore turistico.
Tim sarebbe stato d’accordo. Come racconta Herr, quando un editore gli chiese se avrebbe scritto un libro che eliminasse ogni elemento di fascino alla guerra, Page rispose: “Togliere fascino alla guerra? Come accidenti puoi fare? E’ come togliere fascino al sesso, come togliere fascino ai Rolling Stones”. E Tim giocava a interpretare quel fascino, quello che molto tempo dopo lo psicoanalista e filosofo James Hillman ha definito “un terribile amore per la guerra”, ma senza quell’enfasi sullo “stato marziale dell’anima”, bensì puntando sull’immagine dell’avventuriero eccentrico.
Page ha scattato alcune delle immagini più iconiche della guerra – il soldato col volto tra le mani di fronte a un muro diroccato esprime l’essenza dalla disperazione del sopravvissuto – e ha contribuito a modificare l’atteggiamento dell’opinione pubblica americana nei confronti di una guerra presentata come una crociata. Eppure, è forse divenuto più famoso per le foto che gli sono state scattate. Del resto, era noto per gli accessori stravaganti, le sciarpe, le bandane che indossava. Tanto che sembra sia stato lui il personaggio che ha ispirato lo strambo fotografo di “Apocalypse Now” interpretato da Dennis Hopper.
È forse dalla guerra di Troia che una guerra non ha lo stesso potere mitopoietico e quel film consacra Tim come uno dei protagonisti dell’epopea delle guerre d’Indocina. Vi appare come una sorta di cantore delle imprese dell’eroe centrale, il colonnello Kurtz. Ossia, a quanto si dice, Anthony Poshepny, meglio conosciuto come Tony Poe, un agente della Cia che negli anni Sessanta operò tra Vietnam, Laos e Cambogia conducendo la sua personale guerriglia da cui tornava con trofei di collane d’orecchie.
In un altro film, invece, Page trova il suo contraltare, un fotografo meno protagonista, che ancora sembra volersi mantenere sullo sfondo – tanto che continua la sua carriera come fotografo di scena, soprattutto per i sempre più numerosi film girati in sud-est asiatico – ma con quell’aspetto da vecchio baroudeur, avventuriero, che sembra genetico nei giornalisti francesi, come se fossero reduci della Legione straniera. E’ Roland Neveu, uno dei pochi rimasti a Phnom Penh dopo l’arrivo dei khmer rossi. Secondo alcuni è uno dei fotoreporter coprotagonisti di “Urla del Silenzio”, il film che narra la storia del giornalista del “New York Times” Sydney Schanberg e del suo stringer cambogiano, Dith Pran durante e dopo la caduta di Phnom Penh. Pran lottando per la sopravvivenza nei killing fields cambogiani, Schanberg nella tormentata ricerca dell’amico che era stato costretto ad abbandonare. Vent’anni dopo, come raccontava un giovane reporter di una rivista per espatriati pubblicata a Phnom Penh, Tim Page e Roland Neveu si sono ritrovati nella capitale cambogiana, in una sorta di rimpatriata tra reduci. Tra loro c’era anche Al Rockoff, un altro fotografo testimone dell’arrivo dei soldati di Pol Pot e anche lui, sembra, tra quelli che si erano rifugiati nell’ambasciata francese e avevano tentato invano di falsificare un passaporto per Dith Pran, per evitare, come accadde, che venisse condannato ai campi di sterminio.
Anche in questo caso i personaggi hanno quasi offuscato gli avvenimenti, perché in quel periodo, per quanto la guerra fosse ormai lontana, la Cambogia non era affatto in pace. Fino al 1998, anno della morte di Pol Pot, la guerra sarebbe proseguita, seppure a minore intensità e giornalisti e fotografi avrebbero continuato a ritrovarsi al Foreign Correspondent Club di Phnom Penh (aperto nel 1993). Ed è proprio di Page una delle immagini più significative di quel periodo: un elicottero delle Nazioni Unite che sorvola una folla durante la campagna elettorale che avrebbe dovuto riportare il paese alla normalità.
E’ stato detto che i reporter sopravvissuti alla guerra in Vietnam possono aver lasciato il Vietnam – il paese è ormai una sineddoche per tutti i teatri della guerra in Indocina – ma la guerra del Vietnam non ha lasciato loro. Sono rimasti “in zona” oppure hanno continuato a tornarvi. Come ha fatto Page, che negli anni immediatamente successivi al conflitto è tornato in Indocina decine di volte. Almeno nei primi tempi era come se volesse esorcizzare un suo incubo. “Non sopporto l’idea dei loro spiriti senza pace. C’è qualcosa di spettrale, spaventoso nell’essere dispersi in azione” dichiarò in uno di quei viaggi. Gli spiriti, gli spettri cui si riferiva erano di due suoi amici: il cameraman Neil Davis e il fotografo Sean Flynn (il figlio dell’attore Errol Flynn) dispersi in Cambogia nel 1970. Page continuava a cercarne i corpi pur sapendo che non sarebbe riuscito a trovarli. Forse perché, ancora una volta, era alla ricerca di una sua trama interiore. O forse perché, come accade a tanti che sono contagiati dallo spirito di quei luoghi, non riusciva più a distinguere tra i diversi piani dell’esistenza. In seguito, Page sembrò accettare l’idea che i corpi dei suoi amici fossero destinati a rimanere occulti, e il suo lavoro subì una profonda metamorfosi. Non era più un fotografo che interpretava una parte nelle storie che riprendeva, era invece sempre più cosciente dei problemi di coloro che vivevano nelle sue storie. Divenne più forte il suo impegno pacifista e la sua testimonianza sugli effetti dell’agente arancio, il defoliante dai terribili effetti cancerogeni che gli americani hanno rilasciato sulla giungla vietnamita che nascondeva i vietcong. Si impegnò anche con la Vietnam veterans against war, assistendo i reduci amputati e traumatizzati.
In quegli ultimi anni Page ha lavorato alla realizzazione di un libro che è davvero un requiem sulla guerra: “The Mindful Moment”. E’ un viaggio nei paesi della guerra quando la guerra si è conclusa, alcune ferite si stanno rimarginando e altre se ne aprono in un tessuto sociale lacerato, mentre si sta riscoprendo quella antica spiritualità che era stata negata, a volte proibita e il paesaggio non è più squarciato.
Con la scomparsa di Page le storie come la sua sembrano destinate a divenire un racconto per i nuovi giornalisti che si siedono ai banconi dell’Fcc, il Foreign Correspondent Club, di Bangkok, Phnom Penh o Hong Kong. In fondo siamo tutti alla ricerca delle stesse immagini, delle stesse sensazioni. Non raccontiamo il mondo com’è, presentiamo le nostre fantasie, proiettiamo i nostri film. Ma più ci penso e più il romanticismo svanisce per dare spazio a un sottile senso di angoscia, anche di vergogna. “Quanto ti inorgoglisci di essere dégagé, di essere il reporter, non l’articolista di fondo, e che imbrogli combini, poi, dietro le quinte”, ha scritto Graham Greene.
Per sdrammatizzare potremmo passare al Madrid Bar, in Patpong road, la più famosa via a luci rosse di Bangkok. Al tempo della guerra era il ritrovo degli agenti della Cia, uno dei locali preferiti da Tony Poe. Oggi fanno una pizza decente.