lost in translation
Sotto il segno di Giuda. Ogni traduttore è un traditore innamorato
Le riflessioni di Ottavio Fatica che ha lottato con Celine e Tolkien. Il tradimento e l'uccisione del testo per resuscitarne il significato
Adesso qualcosa mi abbandona; qualcosa si allontana per andare incontro a quella figura che sta arrivando. E mi assicura che io lo conosco prima ancora che io veda chi è.” È l’intuizione d’un personaggio ne Le Onde di Virginia Woolf, ed è significativo che la poeta Anne Carson leghi proprio questo passaggio non solamente alla riflessione millenaria sull’esperienza amorosa, ma anche alla dinamica della scrittura stessa, alla trasposizione dei sentimenti in segni grafici. Ogni esperienza intensa comporta anche una qualche traduzione, e ogni traduzione autentica costituisce anche un incontro con cui qualcuno che prende spazio in noi si prende qualcosa di noi. “Grande traduttore”, è così che Chaucer veniva elogiato già nel Medioevo. Come scrisse Chesterton, egli apparteneva ancora a un mondo e un orizzonte intellettuale dove si era più orgogliosi di quanto si era ricevuto ed eventualmente trasmesso che della propria produzione originale. La storia della cultura è sempre una storia di traduzioni, coi suoi eroi, esploratori, eretici. Santo patrono resta il Girolamo della Vulgata, ma altri padri fondatori sono stati Erasmo, Lutero, e altri passaggi decisivi sono venuti ancora dalla Germania di Holderlin e Nietzsche e Benjamin. Per Holderlin il testo originale di un’opera costituisce solo la prima annunciazione d’un messaggio da cui il traduttore, a servizio di Padre Tempo, deve cavare le potenzialità latenti, sorpassandolo nello spirito medesimo dell’opera. Una ricreazione, tanto che lord Byron per spiegare la propria concezione del teatro romantico, rispondeva “Prendete le traduzioni dell’Alfieri.” Per tutto questo, in fondo, il vero santo patrono-quello iscritto nel verbo medesimo, tradere, consegnare- è in realtà Giuda Iscariota. “Qui autem tradidit eum, dedit illis signum dicens: Quemcumque osculatus fuero, ipse est.” Il testo va tradito con un bacio, processato, flagellato, crocifisso, ucciso e sepolto e solo allora resuscita come significato. Ottavio Fatica, che tra i suoi ultimi corpo a corpo annovera la resa in italiano di due titani come Il Signore degli Anelli di Tolkien e Guerra di Celine -“non appena mi mettevo a leggerlo, qualcuno ecco attaccava a parlare dentro me, parlava a me, direttamente: ai nervi, ai precordi – parlava attraverso me. Sensazione esaltante, perturbante, quasi di dolore fisico e, ho il sospetto, assai pericolosa da inseguire o sobillare”- ha pubblicato per Adelphi una raccolta di riflessioni sul campo intitolata Lost in translation, come il film di Sofia Coppola che si chiude con un dialogo inudibile tra i due protagonisti e che solo chi non ama davvero cinema e arte vorrebbe sbrogliare. Un mosaico di immagini e intuizioni che ricorre alle dinamiche narrative e ai personaggi dei testi medesimi per raccontare cosa accade a un traduttore, cucciolo d’uomo cresciuto dalle belve come Mowgli- segnato da un “doloroso senso d’inappartenenza, creatura di confine, frontaliero per indole e mestiere. Per destino” - uno sherpa, un mulo da soma, un Simone di Cirene che sostiene il peso della croce fino al Calvario col misterioso condannato. Come l’Hobbit Sam proprio di Tolkien che si issa sulle spalle il corpo devastato di Frodo: “Non posso portare l’Anello al posto vostro, però posso portare voi e l’Anello. Perciò alzatevi! Coraggio! Sam vi farà da cavalcatura. Ditegli solo dove andare, e lui andrà ” Al pari del “più nobile dei gesti: assumere spontaneamente una sofferenza vicaria” anche “la traduzione sta sotto la dura legge della sostituzione”. Quanto alla poesia poi, al suo nodo gordiano di senso e suono, la resa in una lingua diversa “è una poesia che ha in un’altra poesia la sua ragione d’essere”. Si tratta sempre di un corpo che chiede un corpo, perché col corpo si scrive, e persino la postura e il respiro sono parte del processo medesimo. Quei segni battuti sui tasti ci cambiano, prendono spazio in noi, perché occupano la nostra memoria, chiedono in prestito ricordi ed emozioni. Ogni incontro, pure attraverso le parole nel tempo resta sempre una contaminazione. “Come si viene ad essere curiosamente cambiati dall’aggiunta, sia pure a distanza, di un amico. Quale prezioso servigio ci rendono gli amici quando ci richiamano. Eppure com’è doloroso essere richiamati, attenuati, farsi adulterare e miscelare, diventare parte di un’altra persona” constatava ancora il personaggio de Le Onde. Fatica riecheggia la stessa pulsazione, intensa e dolorosa, lo stesso movimento che risale dal ramificarsi della biologia cellulare fino ai tormenti e alle gioie della pagina scritta: “finché c’è qualcosa da tradurre c’è la vita”. Lo sapeva già Omero, ce lo aveva già raccontato lui tra i primi. Quando Odisseo scende alla soglia del regno dei morti, gli spettri del passato devono bere a una pozza riempita di sangue sacrificale per ritrovare coscienza e voce, e raccontare le loro storie, dialogare coi vivi, predire il nostro futuro.