1945-2023
Un poeta sotto le bombe. Un ricordo di Marko Vešovic
“Sono di qui”, e non se n’era andato da Sarajevo: uno come lui oggi sarebbe prezioso in una città ucraina. La solitudine, la guerra, i tradimenti e la ricerca di un posticino in cui aver sempre qualcuno con cui parlare
Tutto quello che ho fatto, tutto quello che ho mancato
o mi sono rifiutato di fare. Tutto quello che ho detto
o ho taciuto, o mi sono rifiutato di dire.
Tutta la mia vita è parte di una lunga incomprensione
con questa città di provincia…
Tutto è stato un malinteso
tranne quello che ho scritto e che nessuno ha letto,
… e non aveva un solo motivo per leggerlo.
Sono ancora qui solo per questo,
perché ho una tomba nella quale un giorno giacerò.
E basta.
Quando ho chiesto uno spazio maggiore per ricordare Marko Vešovic ero mosso dalla commozione, e dalla gratitudine per l’amicizia di cui era stato con me generoso. Poi, mentre estraevo i suoi testi (avviso: le traduzioni sono azzardate, invoglieranno a cercarne di affidabili) mi sono detto che uno come Marko è esattamente il tipo di persona e di poeta che sarebbe più prezioso oggi in una città ucraina – nella mia mente Odessa e Sarajevo sono sorelle. Uno come lui che sotto le bombe dica: “Sono di qui”, e un giorno, se e quando sarà finita, e tanti di dentro e di fuori si procureranno un distintivo e controlleranno gli atti di nascita, saprà di essere solo, saprà essere solo.
… mi viene incontro un uomo, canuto e stempiato. Cappotto buttato addosso, cravatta e camicia, bastone, si trascina a malapena. Trema come per l’inverno e non è inverno, come per il vento e non c’è vento. Mi si accosta di sbieco: “Mi scusi, sono un ingegnere in pensione“… Ho 20 marchi nel portafoglio, “Non ho da cambiare”. E’ lì in piedi, guarda, tace. “Ho 20 marchi”. “Salute”, dice, con una voce che non dimenticherò. Mi considera fortunato. Mi guardo attorno, dove potrei cambiare, non posso dargli tutto. Anche se, ho pensato per un momento, dovrei. Ma ho un figlio. Il negozio Delikatesa è vicino, compro dolcetti per sei marchi. Lui ha proseguito perdendo la speranza, ma va così piano, lo raggiungo. Se gli do 14 marchi per me è un po’ troppo. Ne tiro fuori dieci. Guarda, poi dice: “No, signore, è tanto”. “Non ho resto, glielo ripeto”. Ringrazia ancora. Si scusa di nuovo, “profondamente”. “Anch’io una volta davo. Adesso non sono più nessuno”. Ci siamo separati, e ho pensato che i tipi che hanno promesso di rendere felici i bosniaci hanno parzialmente mantenuto: hanno reso felici sé stessi e i loro nipoti, e presto passeranno a rendere felice il resto del popolo bosniaco. Gli basta pazientare fino ad allora. Del resto non è quello che avevamo imparato in quattro anni? La famosa pazienza?
“Marko Vešovic ha lasciato molti libri inediti. A Sarajevo non c’era nessuno che li pubblicasse, toccavano i clan locali”. Così duramente ha scritto Miljenko Jergovic. Lo scrittore Andrej Nikolaidis, che ha fatto l’itinerario opposto, è nato a Sarajevo nel 1974 e vive in Montenegro, ha pubblicato una fotografia in cui gli è accanto, in una casa di riposo della periferia di Sarajevo. La foto è di Kenan Efendic, è dello scorso 29 maggio. Non vedevo Marko da 25 anni, e riguardavo le sue fotografie, cominciando da quelle in cui si assomigliava. Quelle in cui era grandioso, e la capigliatura faceva pensare a un nido d’uccello, come si dice, ma nel suo caso ci sarebbe stata comoda una cicogna coi suoi piccoli. In una fotografia recente, del marzo 2019, questa scattata da Jergovic, a Sarajevo, sullo sfondo del cimitero di San Giuseppe, il luogo abituale dei loro incontri e ora quello della sua sepoltura, colpiscono le guance infossate, una bocca che sembra non avere più denti né rimpiangerli più, i capelli radi schiacciati sulla testa, e un’espressione, per gli occhi chiusi, forse per caso, per un sole in fronte, che però mi fa pensare alla sua immagine di sé come postumo.
Quando ti sdrai per morire, / non ti pentirai di nulla.
Nella foto con Nikolaidis, benché siano passati solo 4 anni, e Marko ne avesse ora 78, è molto vecchio e stanco, quasi accasciato su un divano, ha addosso un cappotto alla fine di maggio, il cappotto si ricorda che c’era un corpo molto più poderoso a riempirlo. Ha un viso lungo e scavato, di uccello già rapace, un bastone nero, e un’aria di altrove. E’ in compagnia, ma è solo. Non c’è dubbio che sia la descrizione che più gli si addice, di uomo solo. Quando morirà, sarà contemporaneo a tutti / tranne che ai vivi. Se l’è guadagnata a caro prezzo. “Sapeva appartenere solo a chi soffriva – scrive Jergovic –. Non appena smettessero di soffrire, non era più loro. E lo insultavano, perché insultava i loro idoli”. Si premurano per me: Sii saggio. Vogliono dire: Stai zitto. Nicolaidis avverte che “non ci sono libri scritti da lui nelle librerie del Montenegro”. Ho cercato se Marko usasse Facebook: sì, fino a un anno fa. Pubblicava sue poesie, suoi testi. Prezioso, per me, come un corso di recupero. La mia lingua non è mai stata granché, e l’ho dimenticata – è quello che so dire, sve zaboravio. Il traduttore automatico – ho un allenamento lungo quanto la lunga Ucraina – è un sacrilegio in poesia, ma sa tirar fuori espressioni assurdamente poetiche. Bene: per anni i suoi versi, le sue prose, hanno ricevuto sì e no due o tre commenti alla volta, e un avaro gruzzolo di like. Dunque ne scrivo anche con uno spirito vendicativo. Non me ne vorrebbe, Marko, che quando c’era bisogno di imprecare e maledire si ricordava di essere stato montenegrino.
Quando è iniziato, ho pensato, le cose sono semplici: o morirò o rimarrò in vita. Era tutto scritto nell’alto. Chi avrebbe immaginato che saremmo stati giudicati non in alto, ma qui sotto… Non avrei potuto sognarmi che il mio migliore amico, da vent’anni, mi avrebbe fatto assaggiare il mio stesso sangue con un cucchiaio, come se fosse una zuppa… Meglio a te che a me, dice. I “tuoi musulmani” avevano programmato, dice, che tu facessi lo stesso con noi. Quindi, spiacenti, ti abbiamo preceduto. E questo è quanto! Chi avrebbe potuto immaginare che il mio miglior amico mi avrebbe prima picchiato finché tutte le otturazioni non mi cadessero dalla bocca, e poi mi avrebbe puntato al petto una baionetta… Quando è iniziato, ho pensato: o morirò o rimarrò vivo. E non sapevo che si potesse davvero morire e vivere. E’ come camminare, guardare, mangiare e parlare dopo il mio funerale. Faccio finta di essere vivo. Faccio finta di avermi.
Una volta, era già il 2008, gli assegnarono un premio importante in Montenegro per un libro di poesie. Solo che nel 1993 avevano premiato Radovan Karadzic, che venne a ritirarlo su un carro armato. In Montenegro, ricorda Azra Nuhefendic, Vešovic era diventato il rinnegato, “il turco”. La famiglia (non l’amatissima madre Darinka) lo aveva ripudiato, il governo gli tolse la cittadinanza, la chiesa serbo-ortodossa lo scomunicò. Se lo tennero, il premio.
E lo ammetto, sono un traditore del popolo serbo… Ho tradito il giorno in cui i cecchini di Karadžic sulla Via della Fratellanza e dell’Unità hanno fatto fuoco sui manifestanti inermi e hanno colpito due bambini davanti ai miei occhi. Col tempo il mio tradimento mi è diventato sempre più caro, perché si è scoperto che tradivo uomini a cui piace bruciare, per esempio, moschee. E io sono convinto che il rispetto delle cose sante agli altri sia la base di ogni vita civile. Ho tradito uomini a cui piace, per esempio, giocare a calcio con teste musulmane decapitate. E per me la testa umana, musulmana o no, è il luogo più sacro dell’universo. Ho tradito i cecchini che sparano alle bambine di 3 anni, ai medici delle ambulanze in un’imboscata, ho tradito le persone che incidono croci nella carne musulmana con i coltelli. Insomma, ho tradito persone che hanno tradito tutto dell’umanità.
Il padre di Marko era stato un partigiano, fu ucciso in un regolamento stalinista nel periodo cominternista. Il ragazzo cresce con la madre. Un giovane scrittore erzegovese, Almin Kaplan, ha pubblicato le sue “Conversazioni con M.V.”: nella bella recensione di Jergovic trovo il racconto di un episodio domestico. “A volte mia madre si stufava perché nessuno veniva da noi, allora mi mandava a prendere Novak Becova”. Lei gli prepara un caffè, non il surrogato, quello vero. Poi Novak beve uno o due bicchieri di brandy e “cava di tasca il borsellino di scroto di montone per il tabacco. Ricordo ancora come districa la cartina, l’arrotola e poi fuma e parla lentamente. Novak fuma due sigari grossi e se ne va. E la mamma ci ordinò di chiudere porte e finestre perché il fumo restasse, a prova che qualcuno era stato nella nostra casa”.
Il Montenegro ha solo 400 mila persone. Un nostro poeta disse che siamo un paese piccolo, “anche a contare i nostri morti”.
Era venuto a Sarajevo nel 1963, diciottenne. Fece presto amicizia con “sette o otto” giovani dotati, persuasi che la letteratura fosse la cosa più importante dell’universo. Fra loro i futuri caporioni del mattatoio serbista, Nikola Koljevic, al cui mostruoso mutamento non si sarebbe mai rassegnato, morto suicida (“per mano criminale”, commentò Marko), e Karadzic, montenegrino come lui, presto scoperto impostore – all’ergastolo all’Aja. “Faceva la spia per la polizia. Un collega mi spiegò che ci sono tre cose che non si possono mai provare: che qualcuna è una puttana, che qualcuno è un informatore della polizia, e la terza non me la ricordo”. I suoi tre migliori amici sono stati Abdulah Sidran, Koljevic e Rajko Nogo: Nogo andò a Belgrado e non diventò nazionalista, ma nazista. Le situazioni, dice Marko, decidono del destino delle persone più che il loro carattere. Ma nella stessa situazione, Sidran non esitò, gli altri scelsero l’infamia, lui Marko poteva andare via con moglie e figlia, non era sarajevese d’anagrafe, scelse di restare e finché durarono le bombe su Sarajevo disse: “Sono di qui”. (La stessa cosa fece Jovan Divjak, che era serbo, e fu il suo modo di essere umano, o il finissimo Ibrahim Ljubovic, pittore, invitato a vivere a Stoccolma: “Grazie, preferisco morire a Sarajevo”). Dopo, diceva Marko, il mio posto è nessun posto. “Ora io appartengo alla gente che ha perduto questa guerra. Non appartengo a nient’altro”.
La vita, vissuta veramente / ti farà scoprire / le fragole selvatiche / più buone da raccogliere che da mangiare.
Ha insegnato poesia per tutta la vita. Molti anni fa (gli chiedevano tutti, maledizione, di spiegare Karadzic) raccontò: ho delle belle idee. Potrei scrivere sul poeta croato Tin Ujevic, o sul poeta serbo Jovan Ducic – e i croati direbbero “che c’entra con Ujevic questo montenegrino qualunque?”, e i serbi: “Vuole rifarsi una verginità dopo aver attaccato i cetnici”… Sono un dinosauro, una specie estinta”. Lo candidarono alla presidenza della Bosnia-Erzegovina: “Ma io non so governare nemmeno la mia classe universitaria”.
Oggi tutti sono più importanti di tutti gli altri, tutti sono più intelligenti di tutti gli altri.
Un giorno, il 19 giugno 1995, la mia cronaca quotidiana da Sarajevo cominciava così: “Un bel libro del montenegrino-sarajevese Marko Vešovic si intitola ‘La morte è il capomastro di Serbia’”. E finiva così: “… le persone di Sarajevo stanno rannicchiate e benedicono quel proprio esercito senza capomastri, erede povero e appiedato della cavalleria polacca che galoppava contro i carri armati”. Nel 2002 Marko pubblicò la sua maggior raccolta, poesie e scritti del 1995-1998, intitolata “Poljska konjica”, La cavalleria polacca. Tenni a bada la tentazione di chiedergli se si fosse ricordato di quella mia pagina. Avrebbe fatto una gran risata, e io anche. Chi non si è servito di quella bella leggenda, dei cavalieri all’arma bianca contro i carri armati. Nella poesia che dava il titolo aveva concluso che la storia è le fauci di un leone la cui fame non può essere saziata da nessuna metafora.
E’ diventato quasi naturale per la gente comprare giornali e guardare la TV per scoprire chi odierà oggi.
Dopo la fine dell’assedio e la tregua firmata a Dayton e mai diventata pace, e con una smania di ridiventare guerra, non ebbi più occasioni di incontrare Marko, se non una, memorabile ma affollata. Peccato, mi sarebbe piaciuto stare seduto con lui tutta una sera, lui zitto e io anche. Con tante cose da dire in una sola sera, si può stare zitti. Anche dopo sono venuto molto di rado a Sarajevo, per andare a Srebrenica, o per camminare nella città e farmi lucidare le scarpe da Cika Mišo. A Bašcharšija i turisti compravano i bossoli trasformati in souvenir e i militari turchi distribuivano pacchi dono. Avevo obiettato a una strana nostalgia dell’assedio già mentre durava: era un risarcimento per quelli che avevano deciso di rimanere, o erano rimasti perché non potevano fare altro, e si dicevano con una triste complicità che sarebbe tornata la vita normale e la gente normale e sarebbe finita quella solidarietà, quella fierezza, quel coraggio dignitoso. Prima di tutto, replicavo, viene l’habeas corpus, la fine delle bombe, l’incolumità, e tornasse pure il traffico, le luci di notte che offuscano le stelle, la corsa ad arraffare… Marko però aveva fatto la sua scelta: il preteso dopoguerra riusciva a essere peggiore della guerra. Le persone non avevano imparato niente. Che cos’è la vita, anche la più ferita mutilata e sventurata, se non se ne impara niente? Con lui sarei stato zitto. Non si deve obiettare a chi ti dice che vivere è desolante come la forfora sulle spalle dei vecchi scapoli.
Lui comunque zitto non sarebbe stato. Se, Signore, mi dicessi: scegli dove andrai, in paradiso o all’inferno, questo ti direi. Non lasciarmi andare in paradiso, mio gran Dio, nella vita ho visto migliaia di persone che hanno vissuto cento volte peggio di me in questo mondo, prendili e tienili in grembo, Signore, che non vengano loro meno le lacrime di cui hanno cosparso la crosta del pane in questo mondo. E ho anche sentito, Dio, che in quel tuo paradiso c’è molto silenzio a causa della bellezza e di ogni dolcezza, e io non sono fatto per i posti dove non si dice niente – io, Sabaoth, in quel tuo paradiso non durerei tre giorni, e anche di questo sei colpevole, Altissimo, mi hai fatto loquace e chiacchierone e aspro, e mi è sempre stata più dolce una maledizione che una benedizione. Ma non mandarmi nemmeno, Dio, all’inferno, ho visto migliaia di persone che hanno calpestato i tuoi decreti cento volte più di me, l’inferno sarà cento volte più felice con loro che con me. Ma trovami, Signore, un posticino con te, dove la mia anima non soffrirà troppo, e dove avrò sempre qualcuno con cui parlare. Perché io, quando sto zitto, non valgo né Dio né il diavolo!
Una volta, ero in galera, Alfredo Bini, che era stato il produttore di Pasolini, venne a propormi di scrivere con Vešovic, Abdulah Sidran, e Piero del Giudice la sceneggiatura di un film che avrebbe diretto Margarethe von Trotta, titolo probabile “L’assedio di Sarajevo” o “Snipers”: “Vorrei – disse Bini alla stampa – che il film fosse una via di mezzo tra ‘Paisà’ di Rossellini e ‘La condizione umana’ di Malraux”. Non si fece, meglio così, forse. Ma che magnifica compagnia!
Solo la fine del mondo spiegherà tutto alle tue ossa. In tempo di pace, cercare di conoscere il tuo prossimo è la stessa cosa che prendere a sassate la luna nell’acqua.
C’è solo fumo… Quello della frase, scritta in etrusco – la prima che la scienza è riuscita a decifrare: “L’uomo è solo fumo”. “Cjovjek je samo dim”.