Pontiggia con Alberto Arbasino al Premio Campiello nel 1994 (foto Wikipedia)

letteratura

Le sempre valide lezioni di Pontiggia sulla scrittura

Marco Archetti

Disponibile su YouTube in 25 puntate, il corso di scrittura dello scrittore e critico letterario italiano non è cosa da lasciarsi sfuggire

"Ha un romanzo? Me lo mandi pure. Poi tra un po’ mi chiami, io sicuramente non l’avrò letto. Faccia passare un po’ di tempo e mi richiami un’altra volta, tanto non l’avrò letto nemmeno allora. Al che mi chiami una terza volta, io sarò molto irritato dalla sua terza telefonata però a quel punto l’avrò letto. Allora le darò un appuntamento e ne parleremo”.

Così disse Elio Vittorini all’allora venticinquenne Giuseppe Pontiggia. E mantenne la parola: dopo quattro mesi erano seduti a una scrivania e lo scrittore siciliano esaminava il testo di quel giovane impiegato pagina per pagina, segnando col la penna le parti che non andavano. “Via le recensioni dei sentimenti”, gli disse. “Bene i dialoghi, benissimo quando parli di soldi e di cambiali”. 

L’aneddoto che avete appena letto viene raccontato presto, quindi possiamo dire che bastano 9 minuti e 48 secondi per sapere, in forma liofilizzata, gran parte di ciò che c’è da sapere su come si scrive. Ma il consiglio è opposto: mettersi comodi e tirar tardi, perché un corso di scrittura con Giuseppe Pontiggia in cattedra, disponibile in venticinque puntate su YouTube (“Dentro la sera, conversazioni sullo scrivere”), non è cosa da lasciarsi sfuggire. Si tratta della registrazione integrale di un ciclo di incontri per Radio Rai che lo scrittore condusse trent’anni fa su insistenza di Aldo Grasso, e sentirla fa bene al cuore. Alle orecchie un po’ meno, la qualità dell’audio è difforme, ma la freschezza delle questioni e dello stile ci fa dire che al programma non è passato un anno, mentre, da allora – Pontiggia aveva appena pubblicato Vite di uomini non illustri vincendo il premio Flaiano –, molti cattivi romanzi sono passati sopra i ponti anziché sotto come avrebbe dovuto essere. Ma proprio per questo, cullati dalla certezza che la ripetizione sia utile quanto più è inutile, il riascolto è donchisciottescamente consigliato.

Come prendere sul serio molte cose che dice Pontiggia: con la sua parlata refrattaria all’effetto facile, amabilmente divagante, sempre sul filo di una simulata improvvisazione e di una cordialità non spettacolare, eccolo menare felpati fendenti e regalare dritte eterne. Eccellente l’impostazione problematica e non normativa delle questioni di scrittura, a partire dal concetto che la scrittura – quella quotidiana, che si ottiene a fatica, stanandola – sia inevitabilmente lontana dalla denominazione euforica che è “creativa”. Molto interessante la demolizione del culto superstizioso della parola: “Quando ci si innamora si scopre la parola”, dice Pontiggia, ma subito rievoca per contrasto Stendhal – “meglio tacere”. Perché è un fatto: si parla anche se non si verbalizza, ma la nostra prosa non lo sa, troppo spesso oberata di informazioni e direttive. Irrinunciabile anche la chiarezza, che – dice Pontiggia – “è una vera aspirazione intellettuale, rispetto ai modesti e narcisistici trionfi che garantisce un linguaggio incomprensibile”. Lodi all’oralità “da folletto micidiale” di Piero Chiambretti e alla prosa di Romano Prodi – tutto avremmo immaginato. E poi amore dichiarato per Italo Svevo, Paul Valéry, Montaigne. Le perplessità, anche queste molto attuali: verso chi si lascia prendere e perde la misura, e verso chi ulula contro i forestierismi senza accorgersi dei danni che produce chi scrive in italiano spento, usando una lingua le cui risorse resteranno in gran parte inutilizzate. Senza mezzi termini, le nude verità: non tutti coloro che si applicano, pur con tenacia, diventano scrittori; l’illusione che coglie lo scrittore che ha appena consegnato un’opera è di saper scrivere la successiva; scrivere non è trascrivere ciò che si ha in testa e men che meno rovesciare le budella sulla pagina – “non bisogna innamorarsi dei propri percorsi psicologici, è vanità puerile”. Evitare la retorica come la peste – cose del genere “trascorsi l’estate con un sodale di gioventù contubernale”. E tenere a mente Jules Renard, secondo il quale “che cielo!” è sempre meglio di “cielo azzurro”.

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