teatro
Storie di eccellenze dimenticate della drammaturgia italiana, raccolte in un libro
Paolo Petroni con "La scrittura del teatro" indaga ciò che è accaduto sui nostri palocenici e testimonia il passato italiano
In Italia, contrariamente al resto della scena occidentale, tendiamo a pensare che l’autore di testi teatrali o, ancor più, di opere musicali, sia ormai serenamente passato all’altro mondo. Anzi, più è morto e meglio è, perché quella patina di antico che si è depositata, complice il passare del tempo, sulla lapide ne potrebbe aumentare la credibilità. E pure il peso specifico del nome, da spendere sui cartelloni per incassare al botteghino. Se è straniero qualche eccezione la facciamo, qualche vivo lo becchiamo pure, vuoi perché il nome suona esotico e fa tanto chic, vuoi perché magari la fotocopia del certificato di morte ci mette del tempo per arrivare sui tavoli dei burocrati. Almeno, guardare i titoli delle programmazioni nostrane, di prosa e d’opera, ci fa credere che l’essere dipartito sia un valore aggiunto. Certo, si potrebbe obiettare che il defunto è storicizzabile, non fa sorprese, la mummificazione è appunto garanzia di autorevolezza e di presa sul pubblico. E, altrettanto ovviamente, non è un discorso che si può fare generalizzando, perché in giro ci sono comunque lodevoli eccezioni, che però sono appunto tali, eccezioni, rispetto al più vasto andazzo. Autorizzano a non fare di ogni erba un fascio o a non buttare via il bambino con l’acqua sporca (la saggezza del dire popolare talvolta aiuta)? Dipende da quale punto di vista si guardano le cose. Prendiamo allora l’autore italiano: in giro ce ne sono di veramente bravi, da quelli più stagionati a una serie di scalpitanti giovani. Gente che scrive bene, che conosce la grammatica del teatro, cioè quella di un testo che non nasce per essere letto, bensì per venire messo in scena, capace quindi di acquisire la sua tridimensionalità attraverso chi lo recita davanti a un pubblico (d’altra parte anche Pirandello, mica un pischello qualsiasi, un giorno si accorse che scriveva meglio “con” gli attori e non semplicemente “per” essi). Eppure, quanti di questi autori trovano collocazione nella programmazione dei nostri teatri? Fatta una valutazione a spanne, meno dei loro colleghi di altri paesi. Tuttavia la drammaturgia italiana ha una storia importante e quella recente si colloca su questo solco. A testimoniarlo è questo libro di Paolo Petroni, “La scrittura del teatro”, che indaga ciò che è accaduto sui nostri palcoscenici guardando dalla parte dell’autore italiano, in un periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e le prime stagioni del nuovo millennio. Petroni è un giornalista di antico stampo, in pista dal 1970, ma proiettato sull’analisi del presente, che ha sempre interpretato con grande prontezza: è stato collaboratore dell’Avanti e del Mondo, di Gr3, Gr2 e Tg2, caposervizio di cultura e spettacolo per l’Ansa, critico del Corriere della Sera, e tra gli incarichi è stato presidente dell’Istituto di studi pirandelliani e autore per anni dell’introduzione dell’annuario Teatro in Italia per la Siae. Tutto questo retroterra lo ha portato a restituire una meditata osservazione, pur in presa diretta, delle vicende relative alla drammaturgia italiana, in questo caso degli anni Novanta. Basta sfogliare a caso le pagine ed escono riflessioni su scrittori che hanno fatto la fortuna dei palcoscenici italiani (intesi sia come teatri, sia come compagnie teatrali) che hanno corso il rischio di investire su di loro, con punte di diamante riconosciute anche all’estero, dove la drammaturgia italiana non è proprio disprezzata e, in alcune circostanze, non è neanche un prodotto di nicchia. Quattordici pagine di indice dei nomi scritte fitte la dicono lunga sulla ricerca di Petroni. Che, dal canto suo, scrive da giornalista, intrecciando la narrazione scenica con gli eventi epocali del periodo (la caduta del Muro di Berlino, Mani Pulite, i trattati di Maastricht, i governi Berlusconi) e chiamando le cose con il loro nome, così quando funzionano non risparmia lodi, quando sono confuse non perdona. Stile che fa riflettere anche sul grado di parentela tra giornalismo e critica: se è stretto ne guadagna la comprensibilità.