Finali di partita
Chiacchierata con Geoff Dyer, autore di “Gli ultimi giorni di Roger Federer”
Quando corpo e mente cedono il passo alla vecchiaia. Il nuovo libro dello scrittore britannico parla del tramonto delle grandi menti, di cosa succede alla creatività invecchiando
"Questa è la fine, bellissima amica, questa è la fine, mia unica amica, la fine dei nostri piani elaborati, la fine di tutto ciò che sta in piedi (“The End”, The Doors, 1967).
Torino, 3 gennaio 1889: Friedrich Nietzsche, il grande filosofo tedesco, durante una breve permanenza in Italia esce di casa al mattino e assiste a un brutale atto di violenza di un cocchiere verso il suo cavallo, davanti a pochi passanti. New Orleans, 12 dicembre 1970: Jim Morrison, il carismatico cantante dei Doors, sale sul palco del Warehouse davanti a tremilacinquecento persone per l’ultimo concerto insieme alla band prima di abbandonare la musica e l’America. Londra, 24 settembre 2022: Roger Federer, il più grande campione di tennis di tutti i tempi è a rete quasi immobile nel campo in terra battuta della O2 Arena nella partita della Laver Cup davanti a ventimila spettatori.
Friedrich, Jim, Roger, tre esistenze diversissime, tre folgoranti stelle nell’alto firmamento, tre finali disastrosi. Tre straordinarie parabole di personalità dotate di carattere unico che si dissolvono in una vampata di pura luce e rimangono a brillare per l’eternità.
Morrison, per esempio, a un certo punto del concerto crolla a terra, sembra senza vita. Ray Manzarek, il tastierista, dice che era come se la sua anima avesse lasciato il corpo. Jim è ridotto veramente male: grasso, barba lunga e incolta e capelli stopposi che non lava da settimane. Il resto della band non vede l’ora di terminare quella pantomima per tornarsene a Los Angeles a finire l’ultimo disco, “L.A. Woman”, e dirgli probabilmente addio. Il 12 marzo 1971 il cantante e poeta prende un volo per Parigi, dove raggiunge la sua compagna Pamela Courson, che lo troverà senza vita nella vasca da bagno il 3 luglio dello stesso anno. Nietzsche, che fino a quel momento aveva spremuto le sue meningi per produrre alcune delle idee più esplosive del pensiero occidentale, in una pausa torinese per riprendersi dall’immane sforzo creativo dà letteralmente di matto. Arrivato a Torino per riposarsi sembra felice, scrive addirittura alla madre parole rassicuranti – “la vita che trascorro ha su di me un effetto straordinariamente benefico… una scoperta davvero fortunata questa Torino!” – ma poi un giorno esce di casa e corre ad abbracciare e baciare amorevolmente la statua di un cavallo prima di essere trasportato di forza in ospedale. Federer dal canto suo, che aveva dato una vana speranza a milioni di fan di tutto il mondo, fissa la rete immobile mentre alle sue spalle il rivale di sempre, Rafa Nadal, gioca il tutto per tutto da fondocampo nell’ultima deludente partita di tennis che disputano curiosamente in doppio, prima del definitivo ritiro di Roger. Ma Friederich, Jim e Roger, nonostante il tonfo della caduta sia assordante, rimangono sospesi in cielo, come divinità.
Pranzo insieme allo scrittore inglese Geoff Dyer nel Ghetto romano per celebrare l’uscita del suo “Gli ultimi giorni di Roger Federer, e altri finali illustri” (tradotto da Katia Bagnoli per il Saggiatore, 2023) che non è in realtà un libro su Roger Federer né sul tennis, come avverte l’editore già nel risvolto di copertina. Sono anni che lo inseguo nelle sue lunghe e spericolate peripezie letterarie, cominciate per me proprio a Torino nel 1993: allora il suo romanzo free sul jazz “Natura morta con custodia di sax” (oggi, come tutto il resto, pubblicato dal Saggiatore) era uscito per la gloriosa e sfortunata Instar, che aveva reso tutti i suoi libri oggetti del desiderio grazie a una attenta cura editoriale e una veste grafica lussuosa. L’inglese errante, lo spilungone sempre ben pettinato e dal sorriso beffardo, aveva scritto di avventure esotiche ed erotiche vissute in tutte le città più cool del mondo (Londra, Venezia, Varanasi, Berlino, Detroit). Si era poi stabilito a Los Angeles, a Venice Beach, proprio nel luogo dove il Re Lucertola – come veniva chiamato Jim Morrison – aveva mosso i primi passi. Ogni volta che mi sembrava di essere sul punto di afferrare la sua scrittura, di poterla dominare – e, segretamente, ricreare – Dyer mi batteva con un rovescio letterario degno del Federer dei tempi d’oro. Negli anni il suo racconto è diventato sempre più indefinibile e inafferrabile, dilatando la finzione letteraria ai confini dell’autofiction, trasformando le sue elucubrazioni sul cinema di Tarkovskij, la poesia di D.H. Lawrence o la fotografia di Edward Weston in un assolo free jazz travolgente ed eccitante. All’inizio l’ho invidiato, poi a sorpresa abbiamo cominciato a incontrarci: prima a presentazioni e festival, poi in surreali e rocamboleschi rendez-vous in agriturismi dagli improbabili nomi western.
Affrontare questo ultimo libro – non è un romanzo, come da anni ormai ci ha abituato, e non è saggistica in senso stretto – è compito arduo, richiede concentrazione e silenzio ma alla fine dona poesia, bellezza e tante risate.
Nonostante il caldo asfissiante Dyer si presenta in splendida forma: t-shirt, bermuda e scarpe da skaters. Accanto a sé la bella moglie Rebecca, che lo prende un po’ in giro quando lui le spara troppo grosse. “E’ un libro sulla fine delle cose, sui giorni che precedono il ritiro dalla scena, sia essa un campo di terra rossa, un palcoscenico, uno studio di registrazione o un ring”, continua il risvolto di copertina. “Come spesso accade nei testi di Dyer, il vincitore di venti Grandi Slam è solo il pretesto per parlare d’altro, un modo per riflettere su sé stessi e su di noi. Quando un artista invecchia, cosa succede alla sua creatività? Matura o marcisce? Raggiunge una nuova serenità o soccombe al tormento della morte? Quando il corpo e la mente cedono il passo alla vecchiaia, come può un atleta continuare a essere il più grande di tutti?”.
Mentre aspettiamo i menu lo provoco per rompere il ghiaccio, chiedendogli se pensa mai alla morte. “Non proprio”, risponde lui beffardo, con il tipico humor inglese, “tendo a preoccuparmi di cose più banali o, a livello fisico, di infortuni e disturbi vari, tipo ginocchia e così via. E comunque penso che verrò dimenticato abbastanza in fretta”. Nel libro, in effetti, si parla molto di acciacchi della vecchiaia – problemi alla schiena che l’hanno fatto sentire fragile come il vetro o bloccato nel cemento, e soprattutto al collo, per cui si sveglia al mattino come fosse invecchiato di ottant’anni.
La prima volta che ci siamo incontrati, nelle pause del LocusFest in cui avremmo dovuto parlare di musica e letteratura, il suo principale obiettivo era farsi incordare una racchetta per giocare a tennis contro uno scrittore milanese che avrebbe dovuto intervistarlo durante il match. Inutili i miei tentativi di rimanere a rilassarmi in piscina: fino a quando non l’avessi accompagnato a lasciare e poi riprendere la preziosa Head, non mi avrebbe lasciato in pace. “Peccato che non c’è tuo figlio al posto tuo. Avrei potuto giocare con lui”, mi aveva simpaticamente detto per ringraziarmi a suo modo del passaggio sotto il sole d’agosto in Val d’Itria. Oggi, che ho ripreso a giocare – anche io tra mille acciacchi – gli chiedo perché proprio Federer: “Sicuramente perché è il giocatore più elegante di tutti i tempi. Per arrivare alla posizione che ha raggiunto deve essere stata necessaria una straordinaria determinazione. E una altrettanto necessaria spietatezza. Ma non è solo questo, mi vengono in mente diverse partite che si è anche lasciato sfuggire”. Con il campione svizzero, per una volta, estetica e vittoria hanno potuto viaggiare a braccetto. “Uno dei motivi per cui amiamo guardare Roger”, come Dyer lo chiama confidenzialmente, “è il modo in cui sembra muoversi in una dimensione del tempo diversa, più rilassata. La ragione è che dà meno tempo agli avversari fino a quando, alla fine, non hanno più tempo per fare niente. Ottiene questo effetto stando vicino alla linea di fondo campo, prendendo la palla in anticipo e cercando di accorciare gli scambi. Lo fa anche tra un punto e l’altro del suo servizio. Poiché non si avvicina mai ai trenta secondi consentiti, l’arbitro potrebbe tranquillamente spegnere il cronometro”, scrive nel suo libro. Esattamente come John Coltrane, che ha portato all’estremo la sua arte polverizzando la melodia e trasformandola in musica cosmica, proprio come la pittura di pura luce di Turner, che ha a che fare con la dissoluzione del mondo tangibile, o l’imperscrutabile e inafferrabile poesia metropolitana di Bob Dylan, la stella cometa di Roger Federer diventa movimento eterno, viaggio infinito, sogno perpetuo ad occhi aperti. Di questo parla in realtà il libro, uno dei più felici di Dyer, ma anche di molto altro: delle strade perdute che riportano sempre a noi stessi nella pittura di De Chirico; dell’ultimo colpo prima di ritirarsi dei classici film noir; degli ultimi impegnativi quartetti di Beethoven seguiti con attenzione grazie all’ottima marijuana comprata da MedMen di Venice; della straordinaria longevità creativa dello scrittore John Berger, “un essere umano esemplare. Infinitamente generoso e curioso. Credo ci sia voluto un po’ di tempo per trovare la mia voce dopo la profonda immersione in Berger”, mi racconta lui; della reunion dei Sex Pistols, che più viene rimandata, maggiore sarà la corsa all’acquisto dei biglietti; della fine, tra le fiamme, del manichino gigante al Burning Man nel deserto del Nevada. E molto molto ancora.
Geoff mangia di gusto e sembra chiaramente intenzionato a non condividere nulla del suo pasto né con sua moglie né tantomeno con me. Lo incalzo, riprendendo il tema della fine di uno scrittore, sul fallimento: “Beh, per come la vedo io sono sempre stato uno scrittore di successo. In fondo ho sempre fatto e scritto quello che volevo io. Ricordo di essere stato a un festival della letteratura in Giamaica dove varie cose mi avevano dato alla testa e, di conseguenza, ho detto che avevo più successo di J.K. Rowling perché mentre lei era obbligata a continuare a lavorare sul tapis roulant di Harry Potter io ero libero di fare quello che volevo. E in un certo senso ci credo”. Il prezzo della libertà artistica di Dyer, in effetti, libro dopo libro, viaggio dopo viaggio, esperienza dopo esperienza, ha assunto un valore molto alto.
A un certo punto scrive che “per incoraggiarmi mia moglie mi fa notare che già quando ci siamo conosciuti, più di vent’anni fa, dicevo di essere uno scrittore finito” e, nella pagina seguente, “ecco cos’è per me la scrittura: un modo per rimandare il giorno in cui non scriverò più, il giorno in cui sprofonderò in una depressione così profonda da non riuscire a distinguerla dalla perfetta beatitudine. Si dice spesso che gli scrittori hanno solo uno o due temi a cui tornano di continuo, trovando nuovi modi di affrontarli, nuove situazioni emotive in cui esplorarli. Il mio tema, non ho dubbi, è la rinuncia. E’ la rinuncia che mi ha fatto andare avanti”.
Dopo avergli chiesto l’autografo di rito, e aver diviso il conto alla romana, ci abbracciamo in attesa di rivederci a settembre (sarà ospite a Milano al festival “2084 Storie dal futuro”). A casa mi ributto nella lettura del libro e quando lo finisco, un pomeriggio in cui si boccheggia davanti al ventilatore, rimango a osservarlo in un silenzio stupefatto. “Finito?”, chiede la mia compagna, “di che parla?”. “Della fine”, dico, “e di quello che rimane. E, soprattutto, di quello che non rimane. Che scivola via”.
Su Twitter (prima che finisca la sua vita da uccellino trasformato in croce funerea) apprendo della morte di Tony Bennet, il grande crooner novantaseienne che, nonostante sia stato colpito dall’Alzheimer, ha continuato fino alla fine a cantare. Fino alla fine. C’è una foto da giovane in pantaloncini e maglietta bianca, con una racchetta di legno, intento in un rovescio. La invio subito a Geoff via email. “Gli ultimi giorni di Tony Bennett”, scrivo nell’oggetto. “E’ un segno, certamente”, mi risponde poco dopo. Aggiorno nuovi Tweet e scopro l’attore Russell Crowe in un video da un campo da tennis nel cuore di Roma – Ginnastica Roma, la società sportiva fondata nel 1890 addirittura da Menotti Garibaldi, figlio di – in cui racconta, sussurrando sornione, il suo piacere di essere lì e di giocare sotto il sole: “Certo, ci sono ovviamente tutti i magnifici posti dei “greatest hits” di Roma, il Colosseo, Fontana di Trevi, sì, fantastici, ma questo è Ginnastica Roma, dal 1890, un posto magnifico… veniamo qui, giochiamo a tennis come pazzi sotto il sole, ma io amo questo posto. E’ bellissimo. Ok. Ciao”. Altro segno, certamente.
Tutto passa, niente è eterno, e c’è sempre la speranza che arrivino tempi migliori. E un nuovo romanzo. Di Geoff, o magari di Federer.
Fa male liberarti, ma non mi seguirai mai, la fine delle risate e delle dolci bugie, alla fine delle notti in cui abbiamo cercato di morire, questa è la fine (“The End”, The Doors, 1967).