Il caso
Nei musei, all'opera e adesso anche al cinema: quanta voglia di autarchia
Prima gli italiani? Addio concorrenza e merito. Favino si indigna perché nel biopic di Michael Mann su Enzo Ferrari il protagonista non è italiano. Lo Zeitgeist nazionalsovranista ha contagiato anche la settima arte
Prima gli italiani: nei musei, nei teatri e adesso anche al cinema. Non gli spettatori, beninteso, che si sono volatilizzati da tempo, ma gli attori. Da Venezia, Pierfrancesco Favino si indigna perché nel biopic di Michael Mann su Enzo Ferrari il protagonista non è a chilometro zero come i tortellini, quindi modenese come sarebbe filologicamente corretto (certe “esse”, mi spiace, non si imparano, si succhiano col latte materno) e nemmeno italiano, bensì Adam Driver. “Appropriazione culturale”, accusa Favino, che peraltro è anche uno che sa anche recitare, cosa tutt’altro scontata per chi in Italia lo fa di mestiere (e non maramaldeggiamo ricordando quel che diceva uno che un po’ se ne intendeva come Orson Welles). Segue dibattito, ovviamente. Con Favino, riporta il Messaggero, scendono in campo Alessandro Siani, Pupi Avati, Rocco Papaleo, Enrico Vanzina e addirittura Caterina Murino. Insomma, “fuori i barbari!”, come strillava Giulio II, e giù le mani dai nostri personaggi, Dio ce li ha dati e guai a chi ce li tocca. Inutile ricordare che, mettiamo, Burt Lancaster e Alain Delon non fecero poi così male nel Gattopardo, né Robert De Niro e Gerard Dépardieu in Novecento. Oppure, come spiega sul Corriere uno dei produttori di Ferrari, Andrea Iervolino, che un film con una star hollywoodiana si vende in tutto il mondo, quello con un protagonista che ha come prima e unica lingua il romanesco dentro il grande raccordo anulare (forse).
Ma evidentemente lo Zeitgeist nazionalsovranista ha contagiato anche il cinema, pure tradizionalmente “de sinistra”. La sparata di Favino arriva dopo che Vittorio Sgarbi aveva festeggiato tutto giulivo la prossima espulsione dei tre direttori stranieri dei musei italiani di prima fascia (Brera, Uffizi e Capodimonte), che peraltro a fine anno se ne andranno comunque, in ossequio al decreto Franceschini. Poi Sgarbi si è autosmentito dicendo che stava scherzando, cucù, sorpresa (l’opposizione, al solito, sbaglia: questo governo non è una tragedia e nemmeno un dramma, ma una farsa), però è chiaro che riflette una mentalità diffusa. Prima del Meloni I, di sovrintendenti stranieri alla testa di fondazioni liriche ce n’erano quattro: adesso sono due, dopo la cacciata di Alexander Pereira dal Maggio e il decreto ad hoc per sbattere fuori Stéphane Lissner dal San Carlo.
Eppure nel mondo civilizzato non è così. Macron ha nominato all’Opéra un tedesco, Alexander Neef, mentre un francese, Serge Dorny, guida il più importante teatro d’opera tedesco, la Bayerische Staatsoper di Monaco, e prima di fare il sovrintendente alla Scala un altro francese, Dominique Meyer, sovrintendeva a Vienna. Il grande capo del British Museum è un tedesco, anzi era perché si è appena dimesso, e degli italiani dirigono musei in tutto il mondo. Vale anche per le performing arts. La nostra più grande attrice dell’Ottocento, Adelaide Ristori, recitava in francese a Parigi, in inglese a Londra e in italiano in tutto il mondo. Franco Zeffirelli fece Shakespeare all’Old Vic (anche un Amleto con Albertazzi, come se a Napoli chiamassero un inglese a recitare Eduardo) e a Stratford. Vale anche il contrario. Gli apprezzamenti più affettuosi sugli italiani, perfino su quelli che fanno gli attori, li ho letti in Mémoire cavalière, l’autobiografia di Philippe Noiret (a proposito, era sbagliato anche dargli il Perozzi in Amici miei? E comunque, detto en passant, qualche editore italiano potrebbe pure tradurlo, questo libro delizioso).
Questa voglia di autarchia è l’ennesima conferma che la concorrenza fa paura. Non a caso viene dal cinema italiano, che è in effetti un’industria di stato protetta e sovvenzionata. Ma rispondere alla globalizzazione alzando muri fa ridere, anche perché il protezionismo, in tutti i campi, dà sempre infallibilmente lo stesso risultato: tutelare i peggiori. Il passaporto conta nulla. Attori, registi, musicisti, direttori di teatri e musei non si dividono in italiani e stranieri. Si dividono in bravi e non bravi.