FACCE DISPARI
Chiara Rapaccini: “La mia vita con Monicelli Belzebù”
Aneddoti, personaggi, memorie di una vita con quel signore di sessant’anni, quaranta più di lei, arrivato a stravolgere il destino della piccola femminista fiorentina, proiettata a Roma in un ambiente di attempati mostri (sacri) del cinema e della letteratura
La scena in cui lo vide lei la prima volta è quella che noi abbiamo riguardato per decine o centinaia: gli schiaffi ai passeggeri del treno in partenza da Firenze, il sunto del goliardico spleen e della malinconica allegria di "Amici miei". Però Chiara Rapaccini godette il privilegio – da giovanissima comparsa – di assistervi mentre la scena si creava e mentre lui, lo spietato regista Mario Monicelli, esplodeva in una sfuriata perché un generico aveva scansato la faccia per attutire la sberla di Noiret/Perozzi: “Ascoltami bene. Tu sei pagato per prendere gli schiaffi, hai capito? No per fa’ la gita de piacere a Firenze a mangiare la ribollita, ma per essere menato!”. Chiara pensò: “Monicelli è un mostro e quelli del cinema sono matti da legare. Che ci faccio qui”.
E invece. Quel signore, “il vecchio” – sessant’anni, quaranta più di lei – diventerà di lì a poco l’uomo della sua vita. Stravolgendo il destino della piccola femminista fiorentina, proiettata a Roma in un ambiente di attempati mostri (sacri) del cinema e della letteratura. Chiara, che aveva già spiccate doti artistiche – non per il set, ma per l’illustrazione e la scrittura – dovrà lottare per non restare schiacciata. Lo racconta nel libro Mio amato Belzebù - L’amara Dolce vita con Monicelli e compagnia appena pubblicato da Giunti, zeppo di aneddoti, personaggi, memorie che non sono “scene madri” ma tante “scene figlie”, come quelle che Belzebù-Monicelli si vantava di girare.
Come può nascere e durare un amore con quarant’anni di differenza? Perdoni la banalità della domanda, ma se questa uno non gliela fa la pensa.
Adesso, alla mia età, posso risponderle che una differenza così grande o è da subito un ostacolo insormontabile oppure suscita un’attrazione duratura, se due persone attivano stimoli reciproci così potenti da superare l’anagrafe.
Monicelli la colpì provocandola quando la intercettò a un corteo femminista e le chiese: ‘Credi davvero di esserti affrancata da noi maschi?’. Lei aggiunge che lo disse “con un lampo luciferino negli occhi”.
Ero seccata da questo vecchio che osava intromettersi, ma in quel momento realizzai che era un osso duro. L’amore nasce più spesso quando un uomo ti provoca e ti coglie sul vivo che quando si produce in salamelecchi e parole sdolcinate. Mario era un provocatore e anche l’uomo più intelligente che abbia conosciuto.
E lei si ritrovò di colpo nelle terrazze romane alla Scola.
Dove mi vergognavo anche un po’ quando pubblicavo i primi libri, tra gente che aveva preso l’Oscar, il Donatello. Però esageravo: Sergio Amidei, che aveva settant’anni, Suso Cecchi D’Amico, Age, Scarpelli, De Bernardi, diciamo questa sorta di zii acquisiti avevano intuito la mia sensibilità e ne partecipavano incuriositi. Malgrado la differenza d’età, che sento ancora adesso. E sa perché? Perché sono tutti morti.
Cosa è importante ricordare di quel mondo?
Era una generazione politicamente impegnata ma non “corretta” né seriosa. Se prendevano una posizione litigavano furiosamente, gridavano, sbattevano le porte. Però finiva nel ridere, si sfottevano con le stesse battute che ritrovavi nei film. Dopo di loro è arrivato un nuovo cinema con registi e attori che non ridono e forse neanche sanno essere amici. Tanti piccoli individualisti.
Quanto ne soffrirebbe Monicelli?
Ci girerebbe un film. Oppure, come faceva negli ultimi tempi, reagirebbe parlandone con tutti i mezzi possibili. Mi ripeteva sempre un suo fantasioso progetto, però per carità precisi che era per gioco: insisteva perché gli procurassi del tritolo. Se ne sarebbe imbottito la giacca, avrebbe chiesto di essere invitato in Senato e lì, nell’aula piena, si sarebbe fatto esplodere. Non sopportava i politicanti, il benpensantismo, il capitalismo. Mario nasce socialista nenniano, poi diventa comunista. Ma mica come quelli da Pd.
Poco prima di morire rilasciò l’intervista in cui affermava che la speranza è una trappola, “una cosa infame”.
È chi comanda che dice: state buoni, e intanto ti frega. Viviamo in una società dove stanno tutti buoni non capendo che vengono fregati. Nel mio lavoro di docente all’Istituto Europeo di Design sento tutti i giorni di genitori che corrono tra Roma e Milano, lavorano fino alle undici di sera, sono sottopagati e non si ribellano mai.
I ragazzi se ne accorgono? O la speranza è trappola anche per loro?
Non hanno ideali definiti come quelli della mia generazione. Sono sensibili al tema del clima, ma la politica li sfiora appena. Tuttavia, sono molto più coscienti e meno infantili dei quarantenni, frequentano i social ma ne percepiscono la vacuità. Si difendono con la reciproca tenerezza da un mondo cui partecipano in maggiore solitudine rispetto a noi. Sono come chi, capitato a una festa, in mezzo agli altri si sente più solo e acuisce la facoltà introspettiva.
Come si fa a scrivere per i bambini?
L’autore deve vivere il contatto con la parte infantile di se stesso, che in molti è stata uccisa o derisa. In questo mostruoso periodo la tribù degli adulti l’ha assolutamente messa al bando col politicamente corretto. Questa è una società che teme qualsiasi ribellione e che, per paradosso, è più infantile dei bambini. Perché i bambini sono rivoluzionari, cattivi, non una sorta di cretini come vengono considerati in un’ottica paternalista. Sanno capire Matisse ma gli adulti gli propinano casette pitturate.
Abbiamo intuito perché Belzebù s’innamorò di Chiara.
E Chiara di Belzebù.
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