Delitti e Romanzi
Arsenico e vecchie indulgenze nei gialli britannici
Così i grandi giallisti hanno preso in simpatia le donne avvelenatrici di uomini spregevoli. Agatha Christie in testa
Nei gialli britannici l’assassino è spesso donna. Quasi sempre è un’avvelenatrice. In un articolo apparso sul Tribune nel 1946 e poi ripubblicato col titolo “Decline of the English Murder”, George Orwell lamentava il declino sensazionalistico della copertura giornalistica della vecchia buona tradizione del delitto britannico dell’epoca d’oro, grosso modo da metà Ottocento al 1925. Dei 9 casi celebri presi in esame notava che, se si esclude la vicenda di Jack lo Squartatore (del quale, romanzi a parte, non si sa assolutamente nulla, e c’è chi ha addirittura ipotizzato che potesse trattarsi di una donna che odiava le prostitute), 6 su 8 riguardano casi di avvelenamento. Il veleno, si sa, è da sempre l’arma classica delle assassine donne.
E’ accertato che Orwell ce l’aveva con i tabloid. E specificamente con il venerabile News of the World, repertorio di tutti gli scandali, dall’inizio delle pubblicazioni nel 1843 alla chiusura nel 2011 da parte dei Murdoch, in seguito alle rivelazioni su una campagna massiccia di intercettazioni, a danno anche di famiglie di vittime del terrorismo e di caduti in guerra. Ho passato il mese di agosto in Inghilterra. Mentre da noi non si parlava quasi che di femminicidi, i tabloid britannici raccontavano giorno dopo giorno la horror story di un’infermiera che ammazzava in ospedale i bambini affidati alle sue cure. La poco più che trentenne Lucy Letby, faccia d’angelo nelle foto a tutta prima pagina, li uccideva iniettandogli in vena overdosi di insulina o aria, o somministrandogli altri farmaci. E’ stata condannata all’ergastolo perpetuo per sette infanticidi accertati, ma pare che ne abbia commessi almeno un’altra trentina. Ci fosse ancora la pena di morte tutta l’Inghilterra avrebbe invocato all’unisono l’impiccagione. Lei aveva deciso di non presenziare alla sessione in cui è stata pronunciata la condanna. Sull’onda del furore popolare il governo ha promulgato una nuova legge che consente ai giudici di far portare gli imputati a forza in aula, anche se si rifiutano. Non ha mai voluto spiegare il perché. In tanti fiumi di carta e inchiostro, tante ore di talk-show su tutte le reti non ho trovato che vaghe ipotesi sul movente.
La massima autorità letteraria sui delitti commessi da donne è Agatha Christie. I gialli della più famosa e prolifica scrittrice britannica (80 tra romanzi e raccolte di racconti, solo Simenon la supera), nonché la più tradotta e venduta al mondo (le si attribuiscono ben due miliardi di copie), pullulano di omicidi al veleno. Sin dal Mistero di Styles Court del 1916 nel quale compare per la prima volta in veste di detective Hercule Poirot, un povero profugo dal Belgio invaso dai tedeschi. I vecchi merletti sono intrisi non solo di arsenico, ma di ogni tipo immaginabile di veleno, somministrato in ogni maniera immaginabile. Veleni classici come cicuta, stricnina, oppio e oppioidi, infusi al curaro, estratti di bacche di tasso, pesticidi e veleni per topi, overdosi di digitalis, o altri farmaci sottratti in infermeria, o anche semplicemente piante raccolte nell’orto. Veleni somministrati per errore o con diabolica premeditazione. Iniettati in vena assieme a farmaci prescritti, o mescolati alle gocce per gli occhi, sciolti nell’insalata, nel tè, oppure in una fasciatura impregnata o in una lozione per la barba. I suoi romanzi sono una sorta di “enciclopedia dei veleni”, suggerisce Sylvia Pamboukian, il cui studio Agatha Christie and the Guilty Pleasure of Poison (Palgrave Macmillan, 2022) è dal canto suo una vera e propria enciclopedia onnicomprensiva dei veleni e delle avvelenatrici nella letteratura anglo-sassone.
Christie non è la sola a condire i propri racconti con veleni. Lo fanno tutti gli scrittori di gialli britannici, da Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, a Dorothy Sayers, autrice di Veleno Mortale (del 1930) e molti altri romanzi in cui la protagonista è una detective donna, fino all’americana Shirley Jackson, che Adelphi sta sistematicamente pubblicando alla pari di Georges Simenon. In comune hanno una non dissimulata simpatia per le avvelenatrici più che per le loro vittime maschi, che ripagano per gli intollerabili soprusi subiti. I detective da loro immaginati indagano e scoprono il colpevole, ma spesso decidono di non denunciarlo, di lasciar cadere il caso, di abbandonarlo all’oblio, spinti da un irrefrenabile impulso morale, perché il mascalzone era la vittima, che la punizione se l’è meritata, anche se la perpetratrice ha agito contro la legge, è un’assassina, talvolta confessa. C’è comprensione per il delitto commesso dalle vendicatrici di torti subiti da tutte le donne.
Il lettore è portato passo dopo passo, riga dopo riga, a fare il tifo per l’assassina. A giustificare il detective che decide di chiudere un occhio, di non portare il racconto alle conclusioni di prammatica in un racconto poliziesco, che vorrebbero l’omicida smascherato e punito. A rigore il lettore di Agatha Christie è portato a prendere le parti dell’assassina persino quando questa agisce con fredda e premeditata determinazione, perché ha subìto qualche torto di cui vendicarsi. Si è portati a stare dalla parte di Robin Hood piuttosto che dalla parte dello spietato e corrotto sceriffo di Nottingham. Senza contare la strana ammirazione che può suscitare la diabolica abilità e astuzia anche se applicata al crimine. Agatha prende sfacciatamente parte per le donne, anche se definirla femminista sarebbe anacronistico. E’ stata la prima ad estendere al ceto medio, alle persone apparentemente per bene, agli ambienti colti, la propensione per il delitto che prima sembrava prerogativa delle classi subalterne, roba da bruti nei quartieri malfamati. C’è chi ha parlato di “sovversivismo sottile” nella sua opera.
Tanto per fare un esempio, la protagonista di uno dei racconti brevi, Accident, è un’avvelenatrice seriale, che ha già ammazzato il primo marito e ha subito un processo clamoroso in cui è stata assolta. L’ispettore Evans sospetta che voglia avvelenare anche il secondo marito, di cui è amico. Quando lui le racconta che ha stipulato un’assicurazione sulla propria vita a beneficio della moglie, i sospetti si accrescono e decide di indagare. Si intrattiene per un tè a casa loro. Quando lei rimprovera il marito farmacista di portare distrattamente a casa le tazze che ha usato in laboratorio per preparare farmaci potenzialmente letali, gli balena l’intuizione che lei voglia precostituirsi un alibi per un secondo delitto. Lei prepara tre tazze di tè. Ne offre una all’ospite, una la mette sul tavolino accanto alla poltrona su cui abitualmente siede il marito, una la tiene per sé. L’ispettore si alza e sostituisce la tazza che lei ha preparato per sé con quella destinata al marito. La invita a berlo. Lei beve, con uno strano sorriso di sfida sulle labbra. Beve anche l’ispettore e si accascia al suolo con una smorfia di dolore. “Ha fatto un errore… credeva che volessi avvelenare mio marito… Uno stupido errore, proprio stupido”, gli sussurra lei mentre lui si contorce tra gli spasmi. Poi a voce alta, rivolta al marito nella stanza accanto che funge da laboratorio: “Caro, vieni, vieni subito! Temo ci sia stato uno spaventoso incidente…”.
In un altro dei molti romanzi al veleno, Cinque piccoli porcellini, del 1942 (il titolo, come in altre opere, è tratto da una filastrocca infantile) le avvelenatrici sono addirittura tre. Poirot ha a che fare con un cold case, un delitto avvenuto 16 anni prima. Un pittore scapestrato e sciupafemmine è stato ucciso con la coniina, un alcaloide velenoso ricavato dalla cicuta e usato in farmacia. La moglie, Caroline, ha ammesso di aver sottratto lei il veleno dal laboratorio, ma si è sempre dichiarata innocente, dice che se l’era procurato per suicidarsi, dopo aver scoperto una tresca del marito. Non le avevano creduto ed era stata condannata. E’ morta in prigione. Angela, la sorella minore dell’imputata condannata, aveva anche lei l’opportunità di sottrarre farmaci dal laboratorio. Per giunta già una volta aveva messo per scherzo del sale nella birra del cognato, procurandogli un gran mal di pancia. Stavolta voleva metterci del tarassaco o della valeriana. Cecelia, la governante, non ha avvelenato, ma al processo ha mentito, pensando di difendere la sua padrona. E’ una femminista militante, promuove un movimento di donne che hanno letto del processo sui giornali, una raccolta di firme in cui si chiede clemenza per l’accusata. “Lui ha avuto quello che meritava, non biasimo lei per quello che ha fatto”, dice. Mentre l’ascolta, Poirot immagina di assistere a un comizio di suffragette. La vera assassina è Elsa, l’amante e modella del pittore. Aveva origliato una conversazione tra moglie e marito e aveva capito che lui non intendeva divorziare. Poirot dipana i fili di una matassa complicatissima. In modo assolutamente originale per una giallo, rivangando testimonianze sul vecchio processo, le antipatie e le simpatie degli spettatori nei confronti di imputata e testimoni. Un’indagine per interposte claque e fischi del pubblico (e di conseguenza dei lettori), verrebbe da dire. Alla fine decide di soprassedere: perché il processo non si può comunque rifare, non si può riportare in vita l’ingiustamente condannata, e la colpevole è stata punita abbastanza dalla vita e dai rimorsi.
Tra gli autori di gialli, Agatha Christie è quella che meglio conosce i veleni, i loro effetti, e la possibilità che non vengano scoperti. Era stata volontaria, assistente farmacista nella Grande guerra. Aveva approfondito da infermiera l’expertise in farmaci nel Secondo conflitto. Passeggiando a Londra per Chelsea, dove la scrittrice aveva casa, mi è capitato di scoprire un delizioso giardino quasi segreto, nascosto da un alto muro in mattoni e contraddistinto solo da una piccola targa alla porta d’ingresso: il Chelsea Physic Garden, fondato nel 1673. Esibisce ogni possibile specie di pianta medicinale, con relativa targhetta di spiegazione della proprietà, comprese ovviamente quelle velenose.
La vecchia Inghilterra ha una vera e propria fascinazione per i veleni. Nel delitto come in politica. Erano stati entrambi eletti per i conservatori. Ma Lady Nancy Astor e Winston Churchill si odiavano di tutto cuore. Si racconta che al termine di una cena lei rimbeccasse aspramente Churchill che aveva acceso uno dei suoi enormi e puzzolentissimi sigari: “Se fossi sua moglie le avvelenerei il caffè”. Al che lui rispose: “Se Lei, Signora, fosse mia moglie, lo berrei”. Probabilmente lo scambio di battute è un’invenzione giornalistica. Ma la dice lunga sul ruolo dei veleni nella politica e nella letteratura britanniche. Sia Churchill che Lady Astor erano lettori appassionati dei romanzi di Agatha Christie.
Che fossero rivali politici, pur militando nello stesso schieramento, è un fatto. Lei, aristocratica, ricchissima, divorziata da un primo marito americano, si era fatta eleggere poco dopo che le donne britanniche avevano conquistato il diritto di candidarsi e votare, facendo campagna con lo slogan: “Se non potete avere un uomo in grado di combattere, prendete una donna in grado di combattere”. Fosse entrata in politica mezzo secolo dopo, avrebbe forse potuto essere lei la prima donna premier. Anziché Margaret Thatcher, conservatrice come lei, ultrà di destra come lei, antipatica come lei. Con la differenza che l’aristocratica Lady Astor si batteva per la parità salariale tra uomini e donne e solidarizzava con i lavoratori in sciopero. Anche lei, come la Thatcher, fu messa in disparte dal suo stesso partito. Fu suo marito, in combutta con la fronda interna ai conservatori, a convincerla ad abbandonare la scena politica, cosa che lei non gli perdonò mai.
Così come Agatha Christie non perdonò mai le scappatelle extra coniugali del marito, il prestante pilota dell’aviazione Archibald Christie. Quando Archie nel 1926 le annunciò di essere innamorato di un’altra donna e se ne andò di casa, lei fu protagonista di un episodio che tenne tutta l’Inghilterra col fiato sospeso per una decina di giorni. Fu ritrovata la sua auto ai margini di una cava di gesso. La zona fu perlustrata da mille agenti di polizia, 15.000 volontari e diversi aerei. Ma di lei non c’era traccia. Il suo collega Arthur Conan Doyle per ritrovarla mobilitò addirittura una medium. La collega scrittrice Dorothy Sayers trasse dalla vicenda un intero romanzo: Morte innaturale. La ritrovarono infine in un albergo dello Yorkshire dove si era registrata col cognome dell’amante del marito. L’opinione pubblica si divise tra chi la riteneva una trovata pubblicitaria e chi invece era convinto che la messa in scena avesse come scopo incastrare il marito fedifrago accusandolo di aver assassinato la moglie. Poteva essere la trama di uno dei suoi romanzi. Ma lei non ne parlò né scrisse mai. Non ne fece nemmeno cenno nella sua autobiografia, del 1960. Negli anni successivi la vicenda sarebbe stata romanzata da numerosi altri autori di gialli, film e opere teatrali. Lei si vendicò sposandosi qualche anno dopo con un archeologo, di 13 anni più giovane, conosciuto durante un viaggio in Turchia e in Mesopotamia. E, soprattutto, scrivendo innumerevoli romanzi in cui a essere ammazzati non sono più solo le donne, sottomesse e rassegnate, ma uomini infedeli, violenti, brutali e insultanti. Ammazzati in genere da donne tradite o maltrattate.