La mostra
Firenze, anni Trenta del Novecento: il gran business dell'arte
In città arriva una coppia singolare: i Contini, capaci di costruire una collezione di pregio assoluto, una fortuna. E fondatori di una nuova imprenditorialità. E’ l’inizio di una leggenda
E così, i tempi inducono i conti di Grantham a Downton Abbey a vendere il Piero della Francesca. Siamo negli anni Venti del Novecento, l’epoca in cui i Contini attraversano più volte l’oceano. Sono pezzi di storia. Il grande rastrellamento di opere d’arte, manufatti, reperti archeologici, che ha accompagnato guerre e conquiste, distruzioni e saccheggi – da Napoleone a Goering – ma poi anche i modi meno cruenti, leciti o truffaldini, in cui statue quadri e arredi hanno abbandonato magioni nobiliari, conventi e cappelle: su questo tumultuoso reticolo si può disegnare la storia, o la controstoria, delle guerre, dell’economia, della politica negli ultimi due secoli. Tra il lento declino delle casate nobiliari nelle isole britanniche e la fiammata rivoluzionaria che ha incendiato i castelli francesi, due vicende antagoniste, la storia segue anche altri percorsi. Si veda l’Italia. La penisola, ricca di cittadine e di borghi, di palazzi, ville e castelli, dopo aver subìto guerre e saccheggi lungo tutta l’età moderna, è stata invece risparmiata dalla grande trasformazione otto-novecentesca. Mancata la centralizzazione delle monarchie assolute, l’Italia ospita sì extra moenia i Musei vaticani, ma non ha il suo Louvre, il suo Prado o l’Hermitage. E’ invece scenario di diverse dispersioni e riaggregazioni che tra l’altro non hanno escluso fascinose reinvenzioni di luoghi classici, come ad esempio può dirsi della Galleria nazionale delle Marche ospitata nel palazzo ducale di Urbino, che fu spogliato tra Quattro e Seicento ed è rinato tra Otto e Novecento assorbendo opere dal territorio regionale.
Un’altra vicenda è quella del traffico antiquario. Tra Otto e Novecento uno degli epicentri di questa febbrile attività è la Toscana, e segnatamente Firenze, gloriosa per il passato rinascimentale, forte dei legami culturali con la Gran Bretagna – e per estensione con gli Stati Uniti –, oltre che tappa del Grand tour e sede di una ricca comunità forestiera. Lì si sviluppa un grande business, raffinato ma tutt’affatto moderno, che intreccia ardimenti imprenditoriali, talentuoso fiuto di scopritori, solidi legami con la cultura internazionale e dialoghi con la cultura accademica, quella che con le attribuzioni dei dipinti contribuisce a creare ricchezza. Vi fondano le loro cospicue fortune alcuni celebri mercanti d’arte come Stefano Bardini, giovane pittore tra i macchiaioli, che a metà Ottocento lascia l’attività per dedicarsi al mercato dell’arte e presto ne raggiunge i vertici, vendendo ai maggior musei europei, fino ad acquistare nel 1913 un importante complesso di villa, palazzo, giardino barocco e all’inglese che dalla riva dell’Arno sovrasta la città. Principe delle attribuzioni e massimo consulente degli acquirenti americani fu poi l’ebreo lituano Bernhard Valvrojenski, il cui padre, emigrato negli Stati Uniti nel 1875, prese il nome di Berenson. Critico di grande fama, Bernard Berenson, convertito cattolico, costituì nella villa I Tatti di Fiesole una ricca collezione e biblioteca, oggi di proprietà dell’Università di Harvard.
A Firenze finisce con l’approdare nel 1930 anche una coppia assai peculiare: Vittoria Galli, di modeste origini contadine, proveniente dalla campagna cremonese, dotata di eccezionale talento per l’arte, e il suo “Nano” – così Vittoria chiamava il marito, Alessandro Contini Bonacossi, ebreo ferrarese che la sopravanzava di due spanne, lei minuta e bassina, lui alto più di due metri –, uomo forte di un gran talento per gli affari. La coppia aveva iniziato le sue imprese in Spagna, commerciando in francobolli, il collezionismo filatelico essendo diletto e business dell’antiquaria borghese, per poi trasferirsi a Roma, lì tessendo una fitta rete di affari e di conoscenze. Negli anni Venti, giusto quando i Grantham, fino ad allora sopravvissuti grazie all’apporto di capitali americani e qualche stilla di sangue ebraico, mettono in vendita il loro Piero della Francesca, i Contini attraversano più volte l’Atlantico con casse di quadri. Sono gli anni a cavallo della grande crisi, che incide a fondo, ma deprime appena i grandi affari. Fanno base a New York, e si muovono tra musei e collezioni private di Washington, Filadelfia, Boston, Baltimora, Chicago, Toledo, Detroit, Cleveland, Bufalo, in un giro vorticoso di vita mondana, incontri illustri e grandi affari. Si incontrano con banchieri e industriali come Felix Warburg, i Guggenheim, Samuel Kress, la vedova Frick, i Lehmann. Trattano tele di Botticelli, Lorenzo Lotto, Tintoretto, Antonello da Messina, Velázquez, Ribera, Bellini…, opere in gran parte già uscite dall’Italia e che i Contini comprano in tutta Europa: magari avrebbero potuto farlo anche con i Grantham, se non fossero stati personaggi di fantasia.
Hanno un sistema ben rodato. Mostrano le tele nelle suites del loro albergo, oppure presentandole ai potenziali acquirenti nelle loro stesse residenze. A quel tempo i mercanti italiani vendono non solo capolavori della pittura europea, ma ogni sorta di arredi: mobili, armi, maioliche, paliotti d’altare, cornici, stemmi scolpiti, colonne, statue da giardino, bronzi, piatti, savonarole, arazzi, ma perfino interi pavimenti, infissi, bifore e colonne, caminetti. Gli americani amano evocare il fascino dell’Europa medievale e rinascimentale. L’aristocrazia del denaro e dell’industria non dà vita a una nobilitazione individuale o familiare acquisendo titoli, come avviene ovunque in Europa, ma, oltre a radunare grandi collezioni d’arte, costruisce e arreda interi castelli e palazzi, come il Castello del Belvedere in pieno Central Park, oppure “The Cloisters”, un castello costruito negli anni Trenta come sezione d’arte medievale del Metropolitan Museum of Art di New York. Si tratta di una moda – la ri-creazione di interi ambienti (che ha un corrispettivo nelle “period rooms” dei musei) – che si trasmette all’Italia dannunziana del tempo, come mostrano le sale donate nel 1928 dai Contini al loro amatissimo Benito Mussolini per l’arredo dell’abitazione di Papa Paolo III a Castel Sant’Angelo (con arredi in buona parte acquistati negli Stati Uniti), un dono che in America fu valutato allora mezzo milione di dollari.
E’ un traffico, un business, di dimensioni imponenti, che dà vita a fortune che in Italia a volte eguagliano, o superano, quelle dei grandi capitalisti. Nel 1927 i Contini arrivano negli Stati Uniti con molti quadri destinati poi a fruttare alti profitti ma anche con otto milioni di debiti, o di investimento (quasi sette milioni di euro di oggi). Non stupiscono allora il vorticoso giro di contatti, le giornate passate in telefonate, incontri, pranzi e cene, l’entusiasmo per i singoli affari andati in porto o l’ansia per quelli sfumati, come quello per un dipinto da tre milioni. Per loro non si tratta di riversare nelle collezioni d’arte la ricchezza industriale o commerciale, ma di costruire ad un tempo una collezione e una fortuna esclusivamente attraverso il commercio dell’arte. E la dimensione della fortuna così formata è rivelata dall’acquisto, a partire dagli anni Venti, di alcune tenute – quelle di Capezzana a Carmignano, tra Firenze e Prato, di Groppoli (Pistoia) e di Sangimignanello (Siena), nonché di villa Vittoria a Firenze, oggi sede del palazzo dei congressi. Vicini all’arte e all’architettura contemporanea, i Contini affidano l’arredo della villa fiorentina a Gio Ponti (arredo al quale è dedicato un volume presentato a Firenze in questo settembre) mentre più tardi Giovanni Michelucci amplia una loro villa a Forte dei Marmi, disegna la villa Panna (sede dell’acqua minerale e dell’allevamento di bovini), e negli anni Cinquanta un’altra “residenza Contini” a Firenze.
Ma tra le vicende dei grandi mercanti d’arte, quella dei Contini si segnala non solo per la ricchezza di una grande collezione d’arte. Se i cicli dell’ascesa borghese e di nobilitazione (o di “gentrificazione”) attraverso l’impresa industriale solitamente sono conclusi da una generazione lontana dagli affari, il caso toscano assume aspetti particolari. Anche qui, come altrove in Europa, i nuovi ricchi si nobilitano negli intrecci familiari, nell’acquisizione di titoli e nell’investimento rurale, senonché qui, nelle campagne toscane, fondano anche una nuova imprenditorialità. L’approdo nobiliare dei Contini – verrebbe da dire feudale, pensando che la tenuta e villa di Capezzana apparteneva in origine ai Bourbon del Monte, famiglia appunto di nobiltà feudale, e che, quasi a suggerire certi intrecci, era passata anche dalle mani dei Franchetti Rotschild – sfocia in una industria vinicola che ha tutti tratti della modernità. Infatti, a trasformare il vinaccio di primo Ottocento, spesso di cattiva qualità e poco trasportabile, nel prodotto di oggi, degno dei mercati globali del consumo di lusso, è l’investimento che vi compiono i capitali proprietari e le discipline enologiche. Ugo Contini, nipote del “nano”, nato nel 1921, si laurea in agraria e via via con i figli dà vita a una casa vinicola moderna. La villa, arredata con le opere d’arte del nonno, diventa un brand che attira le élite della ricchezza. Gli stemmi araldici che decorano molte etichette del vino migliore rappresentano questa perfetta circolarità di tradizione antica e di modernità industriale.