Il terrore
Foto sfregiate dalla paura. L'arte di cancellare volti in Unione sovietica
Far sparire personaggi scomodi anche dalle immagini è una pratica stranota nei regimi. Non solo nella Nomenclatura: anche fra la gente comune. Storie di oblio
Ho molte foto strappate a metà. E’ stata mia mamma a strapparle. Non era una scelta politica. Era una scelta estetica. Stracciava la parte in cui era raffigurata lei. La parte in cui non si riconosceva, pensava di non essere venuta bene. Teneva l’altra metà, quella in cui ero ritratto io bambino. O quelle in cui c’era mio padre accanto a lei. Con le foto in cui lei compare assieme a sua sorella, l’operazione sarebbe stata un po’ più difficile. Erano gemelle. Identiche. Sarebbe stata costretta a stracciare entrambe o tenere entrambe.
Sto sfogliando un libro intrigante, con molte foto sfregiate, o tagliuzzate. Per lo più sono foto private, di famiglia. O foto di scuola, con tutta la classe, come quelle che abbiamo tutti. O foto di gruppo degli insegnanti. O dei membri di un comitato, o di partecipanti a una riunione politica. A volte si è riusciti a decifrare la storia che c’è dietro. Ad esempio, una vecchia cornice a punta triangolare accomoda la foto di una donna molto bella, ritagliata a forma di mezzaluna. Non è una scelta artistica. Il ritagliato si chiamava Mikhail Stroikov. Era un brillante studente del Politecnico di Mosca. Fu arrestato, su denuncia di un informatore. L’accusa: sosteneva, in piena collettivizzazione, che la terra andava restituita ai contadini, come promesso dai bolscevichi al tempo della Rivoluzione. Fu tacciato di parteggiare per l’opposizione “di destra” (la destra comunista, quella che rifaceva a Bucharin). Al ritorno a Mosca dopo tre anni di esilio, poté riprendere gli studi, poi fu riarrestato, condannato ad altri cinque anni di esilio. Scontata anche questa pena, fu nuovamente arrestato nel 1937, condannato da un tribunale speciale per “agitazione controrivoluzionaria”, e inviato alla Kolyma. Quest’ultima condanna non fece in tempo a scontarla. Nel 1938 fu giudicato sommariamente da una “troika” extragiudiziaria e fucilato in base al famigerato articolo 58, quello che puniva come “agitazione controrivoluzionaria” qualunque forma, anche solo sospetta, di dissenso.
“Sfortunati davvero quelli che venivano liberati troppo presto! – racconta Solzhenitsyn in un pagina di Arcipelago Gulag, riferendosi a un “reduce” dalla Siberia nel 1946 – […] Tutti i suoi vecchi amici, quelli con cui era cresciuto, cercano di evitarlo se lo incontrano per strada, o lo superano senza profferire parola […] se proprio gli è impossibile evitare la conversazione, parlano di altro, nessuno gli chiede come se l’è passata negli ultimi anni […]. Finalmente un antico compagno di scuola lo invita a prendere il tè. Quando ormai si è fatto buio. Che amicizia! Quanto calore! Lui chiede di guardare qualche foto dei vecchi tempi. Viene accontentato. L’amico aveva dimenticato di aver cancellato con l’inchiostro la faccia del compagno di scuola… Si sorprende quando l’ospite si alza e se ne va, senza neanche aspettare che bollisca l’acqua nel samovar. […] Cinque anni dopo si incontrano di nuovo. Lui si giustifica: a cancellare a sua insaputa, era stata la moglie…”.
Un’altra foto di famiglia mostra in secondo piano, in piedi, una giovane bellissima e dallo sguardo molto intenso. Una di cui innamorarsi al primo sguardo. E’ lei a dominare l’immagine. In primo piano, sedute, altre due donne, più anziane, di cui l’osservatore potrebbe indovinare una somiglianza con la giovane. Una potrebbe essere la sorella maggiore, l’altra, che ha i capelli bianchi, la mamma. In mezzo a loro un militare, o un funzionario di partito, con la faccia cancellata furiosamente. E’ stata lei, la bella, a farlo? Forse i due erano fratello e sorella? Di regola marito e moglie stanno in foto uno accanto all’altro. Una mamma non massacra così la testa del figlio. Non ne sappiamo, né mai ne sapremo niente.
Chissà se è andata come racconta una delle figlie del generale Iona Yakir, ebreo, eroe della Rivoluzione e della Guerra civile, nominato da Stalin comandante della più importante regione militare dell’Armata rossa, l’Ucraina. Poi arrestato e fucilato nel 1937 con Tuchacevskij e altri comandanti. “Litigavo furiosamente con mio fratello. Lui sosteneva che tutto quel che ci era successo era giusto [padre e madre fucilati, i figli mandati al Gulag], che era giusto che i nostri genitori fossero stati arrestati e fucilati, e che Stalin aveva ragione, era un genio…”, racconta una delle figlie. Ad altri non dispiace che siano stati puniti i genitori (“se lo saranno meritato”), ma solo che a questo punto ricadranno sui figli le colpe dei padri, li espelleranno dal Komsomol, il club esclusivo della meglio Gioventù comunista.
Una figlia quindicenne scrive alla mamma prigioniera in Siberia, accludendo una propria foto: “Mamma, sto pensando di far domanda di iscrizione al Komsomol. Devo sapere se tu sei colpevole o no. Se tu sei innocente non chiederò di aderire al Komsomol, e non li perdonerò mai [i comunisti] per quello che ti hanno fatto. Se invece sei colpevole, non ti scriverò mai più, perché io amo il governo sovietico e odio i suoi nemici, te compresa se sei colpevole… Mamma dimmi la verità. La tua figlia infelice, Zoya”. La mamma le risponde rimandandole la foto. Sul retro verga: “Hai ragione Zoya. Sono colpevole. Iscriviti al Komsomol. E’ l’ultima volta che ti scrivo. Auguro ogni felicità…”. “Meglio che lei mi odii. Come farebbe a sopravvivere altrimenti?…”, dice alla compagna di prigionia Olga Adamova-Sliozberg, la quale racconta l’episodio in Il mio cammino. 1936-1956. Giorno dopo giorno, il drammatico racconto in prima persona di una donna internata nei gulag staliniani (Le Lettere). Poi la mamma sfortunata si mette a sbattere la testa sul tavolaccio, singhiozzando disperata.
Cos’ha spinto un’intera generazione, un intero vastissimo paese, a sfregiare le foto dei propri cari, a graffiarne via, talvolta con rabbiosa violenza, il volto o imbrattarlo con l’inchiostro, a tagliuzzarlo con forbici o lametta? E’ chiaro: la paura, la prudenza, il senso pratico, il male minore. Non si volevano avere guai con la Nkvd, la polizia politica staliniana (Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del, Commissariato del popolo agli Affari Interni, il precursore del Kgb). Non si volevano rischiare denunce da parte di colleghi, vicini, amici, parenti, magari figli troppo curiosi o troppo fanatici. Non si voleva fare la stessa fine dei cancellati, cancellati dalla vita oltre che dalle foto, finiti al Gulag, finiti con un colpo alla nuca, svaniti nel nulla, divenuti “non persone”. Comprensibile. Ma allora, perché conservavano quelle foto deturpate, quei tristi mozziconi di memoria, anziché distruggere, far sparire il tutto?
Denis Skopin non ha risposta a questo interrogativo. Se non che probabilmente prevaleva sulla paura il desiderio di conservare almeno un briciolo di memoria dei propri cari (o delle persone con cui un tempo si lavorava o si studiava insieme), di non buttare via l’immagine di innocenti assieme all’acqua sporca. Lui di foto private autocensurate, torturate, contraffatte, ne ha scovate centinaia, migliaia. Le ha catalogate, commentate, si è dato la pena di ricostruire le identità, la storia che c’è dietro (non sempre riuscendoci: moltissime restano anonime, narrano storie di cui non sappiamo assolutamente nulla). Di foto manomesse sono zeppe le biblioteche, i musei, gli archivi russi, anche collezioni private. A cominciare dai dossier della stessa Nkvd fino a quelli, ricchissimi, dell’associazione Memorial, che per decenni si è data da fare a preservare la memoria delle vittime della repressione in Russia. Memorial è stata sciolta, praticamente cancellata l’anno scorso, da Putin. Associazione che operava per interessi stranieri, la motivazione. Skopin è stato licenziato dall’Università di San Pietroburgo dove insegnava, per avere partecipato a una manifestazione contro la guerra in Ucraina.
Aveva appena finito di completare il libro, ancora fresco di stampa, per i tipi di Routledge, Photography and Political Repressions in Stalin’s Russia: Defacing the Enemy. E’ corredato di 73 foto “cancellate” o sfregiate, tra le migliaia che ha avuto fra le mani. Un apparato vastissimo e scrupoloso, in 150 pagine densissime di testo e di note in cui cerca di inquadrare le foto nella situazione storica, di decifrarle e di dare alle persone ritratte e a quelle sfregiate un nome e cognome, una vicenda, una storia. L’originalità di questo libro rispetto ai molti altri in cui si è già trattato, ed egregiamente, di foto, fotomontaggi nelle dittature, è che viene affrontato per la prima volta in profondità l’argomento delle foto personali, non solo quello delle foto destinate al pubblico. A raccontare la Storia stavolta sono le foto private, le foto di famiglia, tipo quelle che abbiamo tutti. Molte sono storie tristi, terribili. Alcune sono invece di esilarante comicità. Anche se sulle conseguenze di un passo falso fotografico c’era a quei tempi davvero poco da ridere.
Come quando il libro di Skopin affronta le foto di un dirigente caduto in disgrazia che compariva a fianco di un dirigente ancora sulla cresta dell’onda, o addirittura il leader massimo. Che fare? Si rischiava prigionia, o addirittura fucilazione per vilipendio all’Unione sovietica e alla sua leadership. Peggio che la blasfemia nel Medioevo. Dannato se cancellavi la persona sbagliata, dannato se non cancellavi quella da far sparire. Si rischiava di finire sotto inchiesta, e inevitabilmente di venire condannati, se in una foto si era associati, o si conservava l’immagine di un “nemico del popolo”. Che si trattasse di foto nella foto, mettiamo di un ritratto appeso alla parete, era un’aggravante. Foto cancellate (o non cancellate abbastanza) venivano usate come prova decisiva nei processi. Un sentiero strettissimo, pressoché impossibile, tra Scilla e Cariddi. Risolto con incredibili e comiche acrobazie. La cosa era complicata dal fatto che il culto della personalità si estendeva ai dirigenti locali, ai numero 2, 3, 4, ecc. del Cremlino. Tutti si credevano dei piccoli Stalin. Senza contare i casi di confusione tra un dirigente e l’altro (alcuni si somigliavano terribilmente nell’aspetto, e soprattutto nel modo di vestire). Un incubo alla maniera dei racconti di Gogol per chi si rende conto di aver commesso anche un minimo e involontario errore. Tra i pochi che se la cavarono, uno studente delle medie il quale, giocando con la fionda, aveva perforato l’occhio di un manifesto con Stalin. Lo stavano già mandando in Siberia (avevano grossi problemi di delinquenza minorile, Stalin aveva deciso di ridurre a 9 anni la punibilità, anche con la pena di morte, altro che decreti Piantedosi), quando il ragazzino ebbe l’ardire di scrivere una lettera direttamente a Stalin, per scusarsi. Fu miracolato. La lettera arrivò davvero fino a Stalin, e Stalin la lesse. E lui la prese sul ridere, scrivendo ai dirigenti scolastici di perdonare il ragazzo, e i suoi compagni, che con le fionde si esercitavano a difendere la Patria, limitandosi a invitarli a migliorare la mira. Stalin era pure spiritoso. Non è da tutti i tiranni.
La pratica, diffusa sotto certi regimi, di “cancellare”, far sparire personaggi scomodi dalle foto è stranota. L’indimenticabile The Commissar Vanishes: The Falsification of Photographs and Art in Stalin’s Russia di David King risale agli anni 90 del secolo scorso. Era un’enciclopedia della sparizione, mediante ritocco più o meno maldestro, di personaggi famosi divenuti scomodi o caduti in disgrazia. L’arte, il gioco di prestigio, consisteva nel farli sparire da fotografie che li ritraevano accanto a Lenin o accanto a Stalin, senza ledere il prestigio del personaggio intoccabile. Stalin è stato, senza tema di competizione, il distruttore più egregio dei compagni di fotografia (oltre che dei compagni di partito). Dalle sue foto sparivano non solo Trockij e gli altri “arci-nemici del popolo”, ma anche tutti quelli il cui mestiere era appunto far sparire i nemici. Famosissime le sparizioni, da istantanee lungo la Moscova o nel cortile del Cremlino, dei suoi un tempo fedelissimi capi dei servizi segreti. Cancellati, uno dopo l’altro. Prima Yagoda, poi Ezhov. All’assassino subentrava un assassino ancora più spietato. Il successore faceva regolarmente pulizia del predecessore, dei suoi collaboratori, dei suoi protetti, e delle sue immagini. La damnatio memoriae di personaggi divenuti ad un certo punto impresentabili o sgraditi è un fenomeno antichissimo. Nell’antica Roma si scalpellavano le statue, e anche le iscrizioni su pietra. Salvo restaurarle quando cambiava il vento o la dinastia. In Russia tutti i nomi sgraditi nei libri della Biblioteca di Mosca erano stati cancellati con un frego di inchiostro. Arrivata la destalinizzazione, avevano provato a ripristinarli, ma l’inchiostro non si riusciva più a toglierlo dalla carta. Si erano infine risolti a scrivere a mano, al margine, riga per riga, i nomi cancellati. Cancellare è ora tornato di moda in diverse latitudini con la cancel culture e il woke di origine americana. Venerabili democrazie imitano quello che veniva praticato su larga scala in Unione sovietica e nella Cina di Mao.
A Pechino, i vecchi di Cina che avevano vissuto lì gli anni più bui, mi raccontavano dell’orrore di quando si riusciva a gran fatica a trovare uova fresche e non si trovava uno straccio di carta in cui avvolgerle. Ogni pagina, di qualsiasi giornale, era tappezzata di foto di Mao. Ma spiegazzare un’immagine di Mao era un delitto capitale. Nel 1989 a Tienanmen i carri armati erano intervenuti a massacrare gli studenti dopo che era stato tirato un uovo contro il ritratto appeso sulla famosa porta. Chi ha la mia età ha visto sparire da un giorno all’altro le fino a poco prima onnipresenti foto di Lin Piao, il successore ufficialmente designato dal Grande timoniere in persona. Poi quelle della vedova Jiang Qing e degli altri membri della “Banda dei quattro” anche dal suo funerale, lasciando imbarazzanti spazi bianchi al loro posto. Così come era successo a Trockij e agli altri epurati dalle foto del funerale di Lenin, anzi, da tutte le foto dell’Impero. In Cina continuano in questi giorni a sparire ministri e generali. Ce ne si accorge perché non se ne vedono più le immagini sui giornali o in tv. E’ il segnale certo che sono stati fatti fuori. Comincia le ridda di ipotesi, supposizioni su quel che sta succedendo ai vertici del potere. Paradossalmente, avessero continuato a parlarne e pubblicarne le foto, facendo finta di niente, non se ne sarebbe accorto nessuno. Sì, certo, si sparisce anche in Occidente e persino a casa nostra. Basta che non ti chiamino più ai talk-show tv e non sei più nessuno. Il mondo si dimentica della tua esistenza. Ma succede, come dire? con un po’ più di garbo. E se qualcuno contravviene, tutt’al più perde il posto, o il programma che conduce. Non viene fucilato.