il caso
Dirigere un teatro d'opera non è necessariamente un mestiere per vecchi
Mentre il governo fa decreti ad personam per il pensionamento coatto dei settantenni, il nuovo direttore artistico del Sociale di Rovigo, Edoardo Bottacin, ha solo 26 anni
L’Italia è una gerontocrazia fondata sull’età. In nessun campo è così vero come in teatro, dove da decenni salgono e scendono dalla giostra sempre gli stessi cavallucci (e anche qualche asino). E’ ancora fresca la notizia che il Festival pucciniano di Torre del Lago, nei guai dopo le pagliacciate di Alberto Veronesi e dei suoi mandanti politici, prova a ripartire affidando la direzione artistica al glorioso Pierluigi Pizzi, 93 anni, anche se va precisato che nel suo caso l’età è come la temperatura: vale quella percepita, e i 93 di superman Pigi equivalgono ai sessanta di un normale medioman.
Ma, insomma, di regola i patrii teatri, specie quelli d’opera, assomigliano a Villa Arzilla per l’età media non solo degli spettatori, ma anche di chi li dirige: anzi, forse una circostanza determina l’altra. Quindi va sottolineata l’eccezione che conferma la regola. Non riguarda una delle pachidermiche fondazioni lirico-sinfoniche, ma un teatro di quelli che il legislatore, bontà sua, definisce “di tradizione”, il Sociale di Rovigo. Certo, fra Rovigo e, diciamo, il West End di Londra o la Broadway c’è qualche percettibile differenza; però si tratta di una “piazza” operistica, appunto, che una storia e una tradizione l’ha. E con un direttore artistico, udite udite, di 26 anni, sì, avete letto bene, ventisei, un’età in cui il bamboccione medio italiano vive ancora con la paghetta dei genitori. Il quidam si chiama Edoardo Bottacin, è in carica da gennaio e ha appena presentato la sua prima stagione, in effetti piuttosto ricca, con una settantina di alzate di sipario fra opera, musical, prosa, danza e concerti. Il cartellone lirico presenta otto titoli, che per Rovigo sono molti, qualche nome importante e anche, fra Tosca e La Bohème (il 2024 è il centenario della morte, quindi sarà alluvione pucciniana), una chicca come la prima in epoca moderna del Pigmalione di Giovanni Alberto Ristori, tipico operista italiano settecentesco da esportazione (nel suo caso, soprattutto a Dresda) ma scritta appunto per Rovigo nel 1714. Oppure un Turco in Italia che si annuncia ghiotto perché primadonna e regista sono due dei giovani più talentuosi del momento, rispettivamente Giuliana Gianfaldoni e Roberto Catalano. Il tutto per un budget complessivo di poco più di un milione e mezzo.
Il Bottacin sembra un classico veneto (di Treviso, per la precisione) che però applica le tradizionali virtù locali di bulimia lavorativa ed efficiente operosità non all’industria o al prosecco, ma al teatro. Laurea in Economia, diploma in organo, master all’Accademia della Scala, gavetta negli uffici produzione o come maestro collaboratore, invece di aspettare provvidenze Bottacin ha fondato la sua associazione, Musincantus, con la quale ha rilanciato l’Autunno musicale trevigiano e da tre estati porta l’opera a Cortina, molto apprezzata dalle sciure milanesi in crisi d’astinenza dalla Scala. Poi fra venti concorrenti ha vinto il concorso a Rovigo, dove l’amministrazione comunale (di centrosinistra) ha ancora la gestione diretta del teatro. Di certo, si tratta del più giovane direttore artistico italiano; resta controverso (e inverificabile) se lo sia anche a livello europeo. Mentre il governo fa decreti ad personam per il pensionamento coatto dei settantenni, cosa in teoria giusta ma che andava fatta meglio e possibilmente senza esporsi a figure of shit planetarie, va ricordato che l’opera non è necessariamente un mestiere per vecchi, come in Italia sembra scontato. Quando, nel 1898, Arrigo Boito e il duca Guido Visconti di Modrone riaprirono la Scala chiusa dal populismo del Comune socialista, chiamarono a guidarla come direttore musicale Arturo Toscanini e come amministratore Giulio Gatti Casazza, che di anni ne avevano rispettivamente 31 e 29. Gatti Casazza era di formazione un ingegnere navale e fino a quel momento aveva diretto soltanto il teatro Comunale di Ferrara: alla Scala fece benissimo, e idem al Metropolitan di New York dove arrivò nel 1908 restandoci fino al ’35. Altro che gerontocrazia.