l'analisi
Istruzione o turismo? Gli stati generali di LuBeC a Lucca e qualche domanda da farsi
A chi serve un museo? Tra Aristotele e overtourism, domande sul futuro della cultura
“I musei saranno in prima linea perché dovranno parlare ai nuovi cittadini e ai cittadini radicati” e dovranno essere “luoghi sicuri di dibattito e democrazia”, dice Christian Greco, direttore dell’Egizio di Torino, giustamente premiato al “LuBeC - Lucca Beni Culturali”. Bisogna che tornino a essere il Mouseion di Aristotele, “dove non sappiamo nemmeno se ci fossero opere, ma c’erano i sapienti che si interrogavano”. Ma bisogna anche “fare una distinzione tra turismo e cultura”. E questa, concettualmente, è la cosa più difficile.
Perché, dice ancora il direttore Greco, i musei “vivono oggi una vitalità che non si era mai vista a livello internazionale”, anzi ci si va ancora troppo poco. Qualcuno, però, questa disperata vitalità la chiama overtourism: dunque che fare? La cultura, i musei, i “beni culturali” intesi nella loro accezione tecnico-organizzativa sono il concime della democrazia e di ogni società: c’entrano dunque con l’istruzione, o sono invece un settore dell’industria culturale che sconfina sempre più nel turismo? La risposta non è scontata, soprattutto in un paese come il nostro, sempre in bilico tra il pregiudizio di conservare tutto sotto chiave e la pulsione di mettere tutto sul mercato. La due giorni di dibattiti e riflessioni di LuBeC 2023 (ieri e oggi), in cui si incontra il gotha degli addetti ai lavori, dal ministro della Cultura ai direttori dei musei, sovrintendenti, studiosi ed esperti parla di molte cose – quest’anno è strutturata in otto “cantieri tematici”, dall’innovazione digitale alle nuove competenze professionali, dal fundrasing al ruolo istituzionale e di valorizzazione proprio del Mic. Ma dovrebbe domandarsi, e non si dubita che lo farà, soprattutto questo: a chi e a quale ambito della nostra vita civile “appartiene” la cultura, intesa come lo straordinario patrimonio di un paese unico come l’Italia? Appartiene all’istruzione, cioè alla formazione di vecchi e nuovi cittadini, o invece alle logiche inesorabili, e per molti versi benedette, dell’industria culturale?
Un mio giovane amico conservava un taccuino ritrovato di suo padre, del liceo. Nero con l’elastico, una scrittura minuta. Era riempito di schedature precisissime, prodotte da lui stesso, delle opere esposte a Brera. Il professore, al tempo, mandava gli studenti a studiare da soli nei musei, quadro per quadro. La lezione veniva dopo. Oggi i musei devono essere “esperienze immersive” anche per le scuole, la digitalizzazione è indispensabile per gli studi, per la conservazione, persino per la fruizione. Gli studenti col taccuino nero non esistono più, ma hanno senso musei divenuti luoghi di puro passaggio, una distrazione cromatica in cui non si impara niente? Christian Greco, che ha fatto dell’Egizio un museo modernissimo e “attrattivo”, dice di no, non è il loro scopo. Ma anche lui è costretto a fare i conti con l’altra metà del quadro, e dire che se ogni anno soltanto il 26 per cento degli italiani entra in un museo, “allora abbiamo fallito”. Fallito perché? La domanda è lecita.
Dalla crisi del Covid, che bloccò improvvisamente tutto il sistema mondiale dell’arte, è nata una riflessione che investe tutto. LuBeC 2023 mette insieme pubblico, privato, pubblica amministrazione ed è il luogo in cui quelle domande sono materia essenziale. C’è l’immancabile cantiere sulla trasformazione digitale e quello sulla “immersività” (chissà se qualcuno, un giorno, spiegherà perché i musei debbano essere immersivi, come una sfilata di moda o un videogioco, e non un luogo di aristotelico studio); il cantiere benemerito sulle nuove competenze professionali, quello sullo sviluppo economico (sostenibile, what else?). E un cantiere cruciale dedicato alla “strategia nazionale” per il recupero artistico-turistico dei borghi storici, su cui il Pnrr ha deciso di mettere una parte cospicua dei fondi per la cultura. Si potrebbe domandare se non sarebbe stato meglio usarli per ampliare invece i musei che scoppiano, ma è un dubbio non previsto nei panel.
In Italia esiste una cosa ancora più enorme e meno maneggiabile del debito pubblico: il suo patrimonio artistico. Ricorda Greco che quello esposto oscilla tra il 4 e il 5 per cento, “il resto è nei magazzini”. E’ il “nostro petrolio” da estrarre, come spesso si dice, o deve essere innanzitutto istruzione, conoscenza? Un direttore di museo, uno dei bravi che perderemo, mi disse off record che in fondo avere un ministero per la cultura è sbagliato, l’arte dovrebbe essere in capo alla Pubblica istruzione. Interrogarsi se oggi i musei debbano essere esperienze immersive, o labirinti in cui entrare col taccuino nero come in Patagonia e leggersi le didascalie lunghe e scritte in piccolo, è un pezzo cruciale del nostro futuro.