facce dispari
Ciro Paolillo: tecnica e poesia di un investigatore di diamanti
"Il diamante è un bene strategico senza di cui non ci sarebbe l’èra moderna". Intervista allo storico e gemmologo Ciro Paolillo, che ha ricostruito per la prima volta la corona di Carlo III di Borbone, a partire dal disegno originale ritrovato nell'Archivio di Stato di Napoli
L’algida e minuziosa figura del gemmologo presume un terzo e più inatteso aggettivo per completare i primi due: deve essere persona poetica. Quando Ciro Paolillo parla di diamanti assume il tono di un innamorato che descrive la donna che non ebbe o di chi racconta la squadra del cuore. Sappiamo da profani che “un diamante è per sempre”, eppure restiamo stupiti se ci dice, o ci ricorda, che “il più giovane diamante ha 800 milioni di anni perché da allora la Terra non ne produce più”, o se accennando ai diamanti neri li qualifica “extraterrestri perché provengono dalla costellazione di Sirio”.
Paolillo, che ha insegnato per ventidue anni alla Sapienza la curiosa materia denominata Gemmologia investigativa, perpetua i casi ormai sporadici di quelle dinastie familiari ostinate nello stesso mestiere a dispetto del tempo: dal 1840, la sua tratta e commercia preziosi e coralli, da Torre del Greco a Roma, sicché dall’accumulazione del passato gli è venuta la voglia di indagarlo. Prima il Tesoro di San Gennaro, più di recente la riproduzione della corona di Carlo III di Borbone, cui ha dedicato un libro (‘L’Enigma della Corona’, firmato con Annamaria Barbato Ricci per Gangemi Editore) e migliaia di ore di laboratorio.
Quante gliene sono occorse per ricreare la corona?
Tremilacinquecento. Per ricostruire, sulla base di un disegno originale ritrovato all’Archivio di Stato di Napoli, la corona con tutte le sue pietre, riproducendo con lo stesso taglio lo straordinario diamante che la impreziosiva: il cosiddetto Gran Farnese, posseduto dalla madre di Carlo III, Elisabetta Farnese regina consorte di Spagna, e modificato affinché dalla naturale tinta rosa purpurea diventasse viola. È questo un caso lampante di gemmologia investigativa: la corona fu disegnata e ordinata nel 1732, due anni prima che Carlo sedesse sul trono di Napoli. Studiando l’oggetto, e inseguendo il diamante, comprendiamo che le trame politiche e militari erano avviate con anticipo al successo.
L’indagatore delle gemme è uno storico in seconda?
La materia è multidisciplinare: richiede cognizioni di storia, storia dell’arte, composizione e tecnica dei metalli. Un lavoro di gruppo con diverse competenze. La mia squadra sta operando sugli ori del Museo archeologico nazionale e sui reperti del Parco Archeologico di Pompei con due caratteristiche: riservatezza e volontarietà. Non percepiamo alcun compenso.
Però nell’accademia è materia assai facoltativa.
E mi dispiace che quest’anno alla Sapienza sia stata cancellata dal dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni. Spero venga inclusa nella facoltà di Architettura, perché contava quasi cinquecento studenti. Purtroppo, lo studio dei preziosi nella cultura italiana non ha trovato posto in prima fila: continuiamo a esaltare la gioielleria francese senza sapere quali maestri siamo stati noi. La storia della gemmologia testimonia la grandezza di Venezia, dove nel 1470 fu tagliato il primo diamante ed era ancora, nel ’700, l’unico luogo al mondo dove fossero in grado di farlo. Si aggiunse Firenze, che acquisì le competenze dalla Serenissima.
Tornando alla corona: da dove proveniva il Gran Farnese?
Senza dubbio dai giacimenti indiani di Golconda, gli unici in produzione a quel tempo. I veneziani importavano da lì diamanti grezzi attraverso Madras o Goa prima che i portoghesi li soppiantassero. Elisabetta Farnese commissionò la corona all’incisore francese Claude Imbert, che tuttavia per realizzarla dovette ricorrere agli artefici fiorentini.
Che fine ha fatto la corona?
La ereditò Ferdinando IV di Borbone, il figlio di Carlo, e la portò con sé a Palermo sui legni dell’ammiraglio Nelson quando i francesi invasero Napoli nel 1798. Al suo ritorno, caduta la Repubblica Partenopea nel ’99, la corona non c’era più. Non escludo che ne abbia smontato le pietre per pagare le sue spese e finanziare i mercenari sanfedisti, o che sia finita a Nelson cui regalò anche la cosiddetta Spada del potere, appartenuta a Luigi XIV e poi finita ingloriosamente sul mercato ai giorni nostri: la sola elsa, venduta per poche sterline all’asta in Inghilterra, fu rubata quando se ne appurò la storia.
E il Gran Farnese?
Forse Ferdinando lo lasciò alla seconda moglie morganatica Lucia Migliaccio. Spero sempre che un giorno salti fuori da qualche parte. I diamanti si possono smarrire, ma non distruggere.
Quanto varrebbe?
Un rosa purpureo di 42 carati sarebbe quotato centinaia di milioni di dollari.
Cos’è un diamante?
Non è solo l’oggetto che brilla in vetrina. È un bene strategico senza di cui non ci sarebbe l’èra moderna: gli aerei non volerebbero, il petrolio non si potrebbe estrarre né le centrali atomiche funzionare. I diamanti sintetici hanno sopperito al fabbisogno dell’umanità, che è mille volte superiore ai quantitativi estratti. E nel 2050 tutte le miniere di diamanti saranno estinte.
Qual è stata la maggiore emozione da gemmologo?
Quando mi affidarono il Tesoro di San Gennaro prima che fosse esposto al pubblico, e vidi uscire la collana e la mitra gemmata di 3.226 pietre preziose dal caveau del Banco di Napoli: si condensavano in quei capolavori l’opera d’arte dell’autore, l’orafo Matteo Treglia, i miracoli della natura e il mio senso d’appartenenza. Il presidente Giorgio Napolitano mi disse che offrire al pubblico l’esposizione del Tesoro era pari alla scoperta di Pompei e Ercolano.
Su cosa sta investigando?
Su uno zaffiro enorme di epoca romana proveniente dal Kashmir. Vorrei capire come riuscirono a inciderlo senza usare strumenti diamantati.