in radio
I padri di Vannacci & co. Quando Arbore e Boncompagni inscenavano la commedia italiana
Ricordate “Alto gradimento”? Il militare gonfio di retorica, il prof. squattrinato, la leader femminista. Tutto grazie alla geniale follia di Marenco e Bracardi
Il Novecento ha fatto anche cose buone: “Alto gradimento”, per esempio. Almeno su un punto, la trasmissione radiofonica di Renzo Arbore e di Gianni Boncompagni possedeva la stessa dote di Giacomo Leopardi: aveva capito tutto del carattere italiano e delle sue maschere. Per esempio aveva già inventato nei primi anni Settanta il generale Roberto Vannacci che, partorito da quel vulcano di idee di nome Mario Marenco, già architetto e designer di fama, al tempo si chiamava colonnello Buttiglione, poi generale Damigiani. Il colonnello Buttiglione esisteva davvero, come ha raccontato il nipote Rocco, politico di primo piano nella Seconda Repubblica: “Il padre di Marenco era un ufficiale della Guardia di Finanza e, a quei tempi, mio zio Giovanni era generale. Marenco, probabilmente, aveva sentito dal padre qualche barzelletta o battuta sul superiore, come si usa in tutti gli ambienti e soprattutto in quelli militari. Così è nato il personaggio”.
A Marenco bastava una scintilla per far nascere un personaggio. Il generale c’era nella realtà, ma c’era già nell’immaginazione senza tempo di quella trasmissione di cui noi non volevamo perdere nemmeno una battuta, perché prendeva in giro noi e il mondo, perché con l’ironia, con l’intelligenza umoristica, con il gusto incoercibile del motto beffardo e irriverente ci metteva davanti a uno specchio e noi ne ridevamo senza sosta. Noi non lo sapevamo, ma “Alto gradimento” con Arbore e Boncompagni, coadiuvati dalla geniale follia di due personaggi strambi e stralunati come Marenco e Giorgio Bracardi, raccontava la commedia italiana. Non la commedia all’italiana: no, proprio la commedia italiana. Una galleria di personaggi, di immarcescibili “tipi antropologici”, come li chiamava Alberto Arbasino, un trionfo di macchiette e caricature che dicevano cosa erano gli italiani, e soprattutto, questo è il punto in cui la genialità visionaria si trasformava in trattato sociologico più tagliente di mille ponderosi volumi accademici, cosa saranno anche a distanza di decenni. E infatti: il generale che in questi giorni con aria marziale sciorina luoghi comuni e banalità declamate come se fossero bollettini militari; il generale che tratta il mondo come una caserma; il generale perentorio e gonfio di retorica, insomma il generale che oggi vende quantità impressionanti di copie del suo libro, insomma il generale Vannacci era tutto lì, in quella caricatura del militare che si rivolgeva sull’attenti ai suoi commilitoni con cognomi così tipicamente marenchiani: Sgravagliotto e Marchiondi, Vicchiolo e Bergamonti, Ruffolillo e Marmaglino “l’aiutante maggiore”, Mascherpa e Ricchiatto e chissà quanti altri ancora che adesso, dopo tanti decenni, mi sfuggono dalla mente. E “Alto gradimento” insieme a “Vogliamo i colonnelli” di Monicelli era l’antidoto perfetto per le fobie di chi, sull’onda del precedente greco, vedeva in quello scorcio tumultuoso della vita repubblicana divise golpiste in perenne azione, perché in radio e al cinema neutralizzavano con l’arma suprema e rara dell’ironia l’atmosfera di pericolo (c’era gente che non dormiva a casa per paura dell’imminente colpo di stato) che stagnava attorno alle gesta dei Marmaglino e degli Sgravagliotto. Altro che generale Vannacci, con tutto il pur patriottico rispetto.
Molte cose mi sfuggono dalla mente di quel gioiello radiofonico, ma non la giocosa attesa scandita dalla sigla di “Alto gradimento”, quel “Rock Around the Clock” che con il suo ritmo travolgente procurava sospensioni scolastiche a non finire, visto che la trasmissione coincideva con l’ultima ora di lezione. Non c’erano le cuffie di oggi. Si usavano i transistor che gracchiavano nell’ultimo banco, tutti rannicchiati con il volume al minimo per non farsi beccare, ma comunque dalla cattedra ti beccavano subito: “fuori dalla classe”, e fuori della classe, finita la sigla, si usciva in compagnia di Scarpantibus e della Sgarrambona. E il professore che restava dentro ecco chi era: era esattamente il professor Aristogitone di “Alto gradimento”, anche lui figura eterna dell’immaginazione scolastica italiana, frustrato, meridionale trapiantato nella metropoli e poi declassato, impoverito, con il vestito oramai liso, le scarpe continuamente risuolate, sminuito nella sua autorità definitivamente andata in frantumi, “quarant’anni di insegnamento, quarant’anni di duro lavoro in mezzo a questi quattro pecoroni” nei confronti dei quali l’unico rimedio velleitariamente suggerito, “amico caro, amico bello!” sarebbe stato una gragnuola di purificatrici “mazzate”. E si rideva di lui, povero professor Aristogitone, e di chissà quanti Aristogitoni ci sono adesso, quando i professori vengono quotidianamente bersagliati dalle cerbottane sparate a smartphone rigorosamente accesi per rendere più social la gogna, con il consenso complice di genitori (qui sta effettivamente la differenza) che protestano se ai loro delicati figliuoli fosse mai minacciata una pur blanda sanzione disciplinare. Anche lui, Aristogitone, un archetipo, un carattere italiano di cui “Alto gradimento” con Arbore e Boncompagni è stata la sarcastica antologia.
E se si facesse il gioco del “chi è chi” tra i personaggi contemporanei prefigurati con decenni di anticipo non dovrebbe risultare improba la scelta delle analogie. Quanti giornalisti d’assalto, quanti ossessivi pistaroli, quanti inseguitori con il microfono acceso e a passo di corsa per non mollare la presa sulla vittima (“è solo una domanda, risponda alla domanda”) non si riconoscerebbero nel giornalista di cronaca nera Max Vinella interpretato da Bracardi che inviava i suoi palpitanti reportage dalla “caserma dei CC” e poi dalla “stazione dei PS”, al grido di “Chiàppala, chiàppala” indirizzato alla preda che voleva sfuggire all’accanimento cronistico immortalato nei suoi preziosissimi taccuini? Un Vinella coraggioso, che però, dettaglio sconfortante, era anche un raccomandato di ferro. Si faceva accudire da una certa “Sora Camilla” e quando Boncompagni e Arbore chiedevano per chi avesse votato alle elezioni lui rispondeva schivo “mi sono tenuto alla larga”, capolavoro di opportunismo e di camaleontismo destinato a non risparmiare nemmeno i giornalisti più d’assalto mai concepiti da mente umana. E poi Ermanno Catenacci, il fascistone smargiasso creato da Bracardi che inneggiava ai tempi di “quando c’era lui”, tutto un batter di tacchi, un’adunata, un popolo acclamante in camicia nera, un salto ardito nel cerchio di fuoco, mentre il Catenacci si esibiva tronfio in racconti inverosimili e a suo dire inediti sulla vita del Duce: oggi, Castellacci, in quale alto, il più alto scranno del Senato della Repubblica percepirebbe un certo sentore, diciamo così una certa affinità antropologica? Mentre adesso, nota deluso e risentito Catenacci-Bracardi, siamo nelle mani di “tutti questi con gli occhialini”, corpi non avvezzi alle abilità ginniche, poco marziali, decisamente un po’ molli. E non c’è nemmeno tanto bisogno di sforzarsi per capire chi, sulle onde di “Alto gradimento” fosse prefigurat* nella figura indimenticabile della dottoressa Ada Venzolato in De Martiriis, leader indiscussa del collettivo femminista “Caina e Abela”, che in confronto le controversie sulla Schwa sembrano cose ottocentesche, dal gusto decisamente antiquato.
Poi c’era Verzo-Marenco, lo studente dell’immediato post-Sessantotto che si reincarnerà nelle varie Pantere che hanno scandito la vita scolastica con occupazioni e autogestioni da tenersi soprattutto nei mesi autunnali e che arrivano ancora ai giorni nostri quando la parodia della parodia della parodia dei movimenti studenteschi (già rinverdita da un gigantesco Corrado Guzzanti con il suo Lorenzo), non riesce a emanciparsi dal lessico e dai costumi dei predecessori oramai diventati nonni dei Verzo attuali. Celebre l’appello verziano alla lotta senza paura: “amo fatto sciopero pe’ protestà contro i grembiulini bianchi nell’Angola”. Ma scusi, Verzo, a lei che gliene importa del colore dei grembiulini nell’Angola, chiedevano a turno Boncompagni e Arbore, facendo finta di non ricordare che proprio Verzo era il capo indiscusso del “Movimento Esecutivo Rivoluzione d’Angola”, il cui acronimo faceva, inesorabilmente, M.E.R.D.A.
E poi, i più scatenati e iracondi tra i partecipanti al cast che anima il circo dei talk-show inevitabilmente riportano al loro predecessore impersonato da Bracardi che irrompeva negli studi di “Alto Gradimento” gridando come un ossesso “Patroclo, Patroclo, Patrocloooooooo!” con evidente rimando letterario alla figura furiosa di Achille nell’Iliade. I giornalisti del Fatto quotidiano, inoltre, dovrebbero essere grati al Bracardi che ululava al vento “In galeeeera”, il motto che sgorga dall’animo esacerbato dei forcaioli e dei mozzaorecchi di ogni colore, distribuiti equamente tra destra e sinistra. Quando poi la rabbia si immalinconiva, arrivava puntuale il ragionier Affastellati (Bracardi) che partiva con la litania surrealista e scombiccherata: “Perché non sei venuta, tin? E te lo dico io perché non sei venuta, Tiiin”, e così delirando senza requie: personaggio eterno ed eternamente lamentoso e rivendicativo della commedia italiana. Al letterato velleitario che alberga in vasti strati della popolazione che pure intrattiene un rapporto decisamente poco assiduo dava voce invece il poeta Marenco, che amava scandire i suoi versi immortali nella poesia “Sfranta”, dove, direbbero i critici dotti, l’ermetismo enigmatico si sposava con un linguaggio trasgressivo e ritmato da sapienti pause che ne sottolineassero le imperscrutabili profondità.
E del resto, allora, come oggi, come sempre, c’è sempre un esperto che ha consacrato la propria esistenza alla maniacale riscoperta delle culture autoctone. Come l’etnomusicologo Ennio Torvajanica che si vantava di aver catalogato un milione e cinquecentomila canti popolari sparsi per il mondo, tra i quali spiccava quello della tribù selvaggia degli uomini-talpa della “Malgaccia superiore” intitolato “Il canto randellato” capace con i suoi strepiti di evocare antiche e violente, molto violente pratiche rituali. I virologi presenti su ogni palcoscenico televisivo avrebbero trovato, se muniti di ironia e di auto-ironia (doti scarse) un adeguato modello di Marenco in Anemo Carloni, improbabile scienziato che indossava le vesti del sagace divulgatore con un lessico del tutto inventato e sproloquiante, ma che quando il duo Arbore-Boncompagni chiedeva lumi su un argomento come le caratteristiche del sangue umano, lui rispondeva spavaldo che nel periodo universitario non poteva nascondere le sue indubbie lacune nello studio del sistema cardio-circolatorio e avrebbe voluto piuttosto esibirsi nella disamina delle differenze tra il corpo maschile (in sostanza più “peloso” ) e quello femminile. E una certo eco dovrebbe essere colta anche da Slow Food e dagli ossessionati del chilometro zero nella litania straziante del pastore abruzzese che con il suo “Li pecuri, li pecuri” reclamava impotente la restituzione delle pecore che gli era state sottratte nell’allestimento di un presepe televisivo.
Poi ci sono i personaggi che oggi sarebbero impensabili, “rappresentazioni che non condividiamo”, come suonano gli allarmi preventivi degli editori americani che pubblicano libri, compresi i classici greci e Shakespeare, dal sapore vagamente ostile agli imperativi della “cancel culture”. Chi pensava che le forbici censorie fossero più robuste cinquant'anni fa, si sbaglia. E’ vero, durante una puntata di “Canzonissima” Arbore e Boncompagni portarono incautamente in studio il personaggio di Scarpantibus, un grottesco animale preistorico catturato in Nicaragua che indossava scarponi senza lacci. Ma la mannaia censoria si abbatté sul povero Scarpantibus colpevole di aver sottratto dai bagni della Rai numerosi rotoli di carta igienica portandoli in diretta tv: la carta igienica faceva scandalo, a quei tempi. Oggi la carta igienica sarebbe ampiamente consentita, ma forse, anzi senza forse, verrebbe severamente vietato il personaggio di Bozambo, che lavorava per Maurizio Costanzo, anzi per il “badrone dottor Gostanzo” come la Mami doppiata in italiano di “Via col vento”. Oppure come Bracardi in Malik Maluk, l’immigrato arabo che gridava come un forsennato “Fangaaala”. “Alto gradimento” aveva previsto tutto, anche il generale Vannacci. Questo, no.