Facce dispari
Héctor Ulises Passarella, il mondo di Borges e il suono del bandoneón
Lo hanno sentito suonare in tanti anche senza essere stati a un suo concerto, perché Luis Bacalov gli affidò l’esecuzione della colonna sonora de ‘Il postino’ con Massimo Troisi, vincitrice dell’Oscar
Tra le forme più nobili della follia campeggia ai primi posti, per grado di complessità, l’opzione del bandoneón, decisamente più estroversa ma non meno impervia delle inafferrabili possibilità del sanscrito o della fisica quantistica. Guai a compararlo alla nostrana fisarmonica o alla “impostura” di una sua più recente versione cromatica. Lo strumento è tutt’altro. Laboriosa invenzione tedesca per suonare musica liturgica nelle chiese di campagna, dove l’organo era invidiata fantasia, il bandoneón fu però perfezionato secondo profanissime esigenze di artisti rioplatensi che accompagnavano il tango nei bordelli. Ci si può suonare Bach e Haendel, Piazzolla o qualunque altra cosa, grazie a due tastiere che fanno per quattro poiché generano note diverse a seconda che si apra o si richiuda il mantice, comparabile all’archetto del violinista e per i virtuosi anche di più: è il “respiro” dello strumento, il suo alito vitale perché il bandoneón non è una cosa. È come una persona.
Così ne parla Héctor Ulises Passarella, nato 68 anni fa a Florida in Uruguay, da oltre un quarantennio in Italia tra Macerata, dove vive, e Roma dove scende a insegnare tutte le settimane. Lo hanno sentito suonare in tanti anche senza essere stati a un suo concerto, perché Luis Bacalov gli affidò l’esecuzione della colonna sonora de ‘Il postino’ con Massimo Troisi, vincitrice dell’Oscar.
Il bandoneón appare causa o effetto inevitabile della sua biografia, sicché il maestro Passarella risulta familiare anche a chi non lo conosce e ricorda però certe pagine di Borges.
Come cominciò a suonare?
Quando sono nato il bandoneón già mi aspettava. Lo aveva comprato mio padre, musicista dilettante ma dotato di orecchio assoluto. Lo suonava per sé, anche se non l’ho mai ascoltato perché si vergognava di farsi sentire da me. Custodiva lo strumento nel suo studio e mi diceva che quando sarei stato più grandicello mi avrebbe portato da un bravo maestro. Fu così. E già a 11 anni debuttavo nelle sale con l’orchestra di Oscar Raúl Pacheco.
Il bambino prodigio non si stancava di suonare?
No, piuttosto non capivo ancora perché suonassi. L’anno seguente però, ascoltando il grande Anibal Troilo detto Pichuco eseguire un fraseggio al bandoneón, compresi che nessuno me lo avrebbe più tolto dalle mani. Ricordo il brano: ‘Danzarin’ di Julián Plaza. Rimasi stupefatto. Purtroppo, mio padre morì giovane e dovetti cercarmi vari lavori.
Come s’arrangiò?
A 13 anni guidavo un taxi e a 15 lavoravo al Tango Bar, che restava aperto ventiquattr’ore. Mi pettinavo alla Gardel e suonavo con musicisti molto bravi. Per cinque anni lavorai tutti i giorni dalle 12 alle 5 del mattino, tranne il 13 di ottobre, quando in Uruguay si festeggia la ‘Giornata del barista’. In quel periodo vidi di tutto: giocatori d’azzardo, prostitute, papponi, ubriaconi, contrabbandieri. Cose brutte e anche belle, quelle di cui scriveva Borges con arte straordinaria non perché le avesse vissute, ma perché gliele avevano raccontate.
Il tango come colonna sonora?
La cultura del tango. Che non è il business attuale, non un ipocrita abbraccio fraterno né un passatempo di consumo. È, anzi era, un sentimento dell’assenza e della dignità.
Perché l’assenza?
Il tango erano le lacrime di mio nonno quando ricordava suo padre, il mio bisnonno, che aveva lasciato la famiglia a Moliterno, in provincia di Potenza, per emigrare in Sudamerica. Un’angoscia che si trasmetteva attraverso le generazioni e un po’ arrivò anche a me. Le radici del tango, quel senso di solitudine, sono molto se non tutte italiane più che spagnole.
E la dignità?
Dignità e coraggio. Mi spiego con un fatto tragico che non dimenticherò mai: assistetti all’agonia di un ragazzo per le pugnalate ricevute in una sorta di duello. Quando accorse il padre lui piangendo gli disse: ‘Sto morendo’. E il papà, che lo teneva tra le braccia: ‘Cazzo, non piangere! Muori da uomo’. Questo è il tango.
Lei come arrivò in Italia?
Nel 1980 vinsi un concorso intitolato a Ottorino Respighi, promosso dall’Istituto Italiano di Cultura, che elargiva una borsa di studio.
Cos’è il bandoneón?
È tutt’uno col suo musicista: va suonato con tutti i muscoli del corpo, diaframma compreso, e con il cuore. Quando per alcuni anni, a causa di un problema fisico, dovetti fermarmi, soffrii terribilmente. Se mi avessero detto di tagliarmi le gambe per riprendere a suonare avrei risposto: tagliatemele. Il rapporto con il bandoneón è come con una persona amata: devi capire e accettare anche i difetti dello strumento oltre ai suoi pregi, ma devi essere disposto a dargli tutto te stesso.
Chi sono i suoi allievi?
Non sono giovani, la media ha tra 40 e 50 anni. Molti arrivano con la speranza di suonare dopo poche lezioni, poi lasciano perdere. Non si può pretendere che lo strumento ti ami. Sei tu che devi amarlo per primo se vuoi essere ricambiato. In Uruguay lo chiamiamo lo strumento ribelle perché non accetta i maltrattamenti, lo devi carezzare come un bambino. Con la tecnica. Se sai far respirare il mantice puoi suonare la musica organistica, come hanno insegnato maestri del calibro di René Marino Rivero e Alejandro Barletta. Vorrei che il bandoneón fosse considerato alla stregua del pianoforte. Come nessuno si definirebbe pianista perché sa suonare ‘Oblivion’, che peraltro è un pezzo bellissimo, allo stesso modo non si proclami bandoneonista.
Chi è il bandoneonista?
Come diceva Bacalov, devi essere un po’ matto per entrare in questo strumento.