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Cosa resta dell'amore fra individui impermeabili. Il romanzo appuntito di Coetzee

Valentina Berengo

Ne "Il Polacco", l'ultima opera dello scrittore Premio Nobel per la letteratura del 2003, la parola amore viene svuotata di senso mostrando come, così, sia ancora più gravida

J.M. (John Maxwell) Coetzee torna con un nuovo romanzo (Il Polacco, Einaudi 2023), appuntito, astringente, erosivo che si fa manifesto dell’incomunicabilità tra esseri umani.

Beatriz, quarant’anni o poco più, e il Polacco, Witold dal cognome “così pieno di w e di z che nessuno si azzarda a pronunciarlo”, di quasi trenta di più, si incontrano a Barcellona dove lui è stato invitato come concertista. Il suo repertorio è Chopin, ma “il suo Chopin non è per niente romantico, ma al contrario in qualche modo austero, Chopin come erede di Bach” e l’incontro tra i due, voluto dal destino (Beatriz sostituisce, nell’accoglierlo, l’amica Magdalena, ammalata) è della stessa foggia. Non ha nulla di sentimentale, e men che meno amoroso: alla donna l’interpretazione del pianista non convince, tantomeno le sue attenzioni, o, prosaicamente, la sua eau de Cologne. L’uomo non parla spagnolo, lei “non capisce – dice il Polacco – perché non mi spiego bene in inglese, né in nessun’altra lingua, nemmeno in polacco. Per capire deve tacere e ascoltare”. Solo che non è detto che l’altro (nella fattispecie l’altra) sia curioso abbastanza, e sappia, metaforicamente, farsi raggiungere dalla musica che risuona nell’aria: “Suo marito la trova priva di curiosità. Ma sbaglia. Lei è curiosa, molto curiosa. Ma non del vasto mondo, e nemmeno del sesso. Di che cosa è curiosa, allora? Di se stessa”.

 

Di questo solipsismo contemporaneo lo scrittore, vincitore nel 2003 del Premio Nobel, si fa impietoso cantore con un’opera per frammenti (suddivisa in sei parti, ciascuna delle quali è la giustapposizione di capitoli brevissimi, numerati, a dare un effetto di forte paratassi), che restituisce un affresco delle relazioni coniugate al presente, in cui ciascuno è incastonato in un universo impermeabile, concluso, alla strenua ricerca di un senso esclusivamente individuale. “Tra un uomo e una donna, tra i due poli, si crea elettricità oppure no. E’ sempre stato così dall’inizio dei tempi. Un uomo e una donna, non semplicemente un uomo, una donna. Senza e non c’è congiunzione. Tra lei e il Polacco non c’è nessuna e”. Il Polacco, però, è uomo d’altri tempi e altre misure. “La felicità non è il più importante… il più importante dei sentimenti” spiega alla sua interlocutrice. “Chiunque può essere felice”. Come a dire che c’è qualcosa che conta di più. “Sono un musicista. […] Per me la musica è la cosa più importante”. E infatti il Polacco da Beatriz torna, inaspettatamente, anche se lei cancella le sue mail senza rispondere, e, quando la donna si concede per poi ritrarsi, non passa all’affaire successivo, alla prossima sonata, ma trova un modo nuovo di cantarla come Dante Beatrice. Lo fa in absentia, per un’ultima, indimenticabile volta. Lo fa in poesia. Witold “non voleva semplicemente dire che l’amava, ma dimostrarlo – dimostrarlo svolgendo per amor suo un compito [provocatoriamente, secondo Beatriz] prolisso e intrinsecamente privo di significato”. “Tuttavia perché le poesie?”. Questa è la potenza della penna, che Coetzee ribadisce, portando alla luce un romanzo in forte sottrazione, dove principio femminile e maschile si combattono per riappacificarsi solo a tratti, nella costruzione di un dialogo sincopato, che non si intreccia mai, dove “l’amore buono e l’amore cattivo” sono inscindibili, i non detti diventano rimuginii, e la parola amore viene svuotata di senso mostrando come, così, sia ancora più gravida.
E quindi perché le poesie? “Perché attraverso le poesie aspira a parlarle dall’oltretomba”. Perché la parola è immortale. 

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