Foto tratta dal sito di Palazzo Strozzi

arte

L'arte minimalista, magica, ma con derive priapesche (ahinoi) di una star, Anish Kapoor

Francesco Bonami

Una mostra retrospettiva a Palazzo Strozzi sul ragazzo prodigio dell’arte britannica prima che arrivassero i YBA, i Young British Artists capitanati da Damien Hirst

Nel 1992 rimasi in fila per quasi un ora per poter entrare in una piccola stanza di cemento e vedere “Descend Into Limbo”, l’opera che Anish Kapoor presentava alla mostra Documenta 9 a Kassel, curata dal belga Jan Hoet. L’opera consisteva in un cerchio nero, in realtà blu scurissimo, di sei metri di diametro apparentemente piatto ma che in realtà sprofondava nel pavimento per altri sei metri. L’illusione che fosse piatto come un mandala tibetano era data dal pigmento blu scuro che annullava qualsiasi profondità. Un vero capolavoro che lasciò una grande impressione in me a quel tempo novizio critico d’arte al servizio della rivista Flash Art.

Nel 2008 l’opera è stata rifatta nel giardino della Fondazione Serralves, il bellissimo museo disegnato da Alvaro Sisa a Porto in Portogallo. Lì un distratto o troppo curioso sessantenne italiano ci cadde dentro, rendendo la citazione di Kapoor della famosa immagine di Yves Klein “Salto nel Vuoto”  – l’artista francese che sembra volare buttandosi da una finestra di una casa parigina – estremante e pericolosamente reale. Gran parte delle opere di Kapoor contengono citazioni nascoste di altri famosi artisti contemporanei. Un po’ come dichiarato omaggio, un po’ per un incurabile senso d’insicurezza e desiderio di emulazione che da sempre possiede questo artista nato in India a Mumbai nel 1954, diventato poi suddito e cavaliere dell’Impero Britannico a tutti gli effetti. La carriera di Kapoor di divide in una fase precoloniale e in una postcoloniale. La prima, dove le radici indiane vengono coniugate in un minimalismo magico e potente; la seconda, dove queste radici si seccano e prende il sopravvento una forma di priapismo barocco e purulento quasi imbarazzante. Palazzo Strozzi a Firenze gli dedica una grande retrospettiva (“Anish Kapoor. Untrue Unreal”, fino al 4 febbraio 2024) curata dal direttore della Fondazione Arturo Galansino, dove grazie a Dio la fase magica è preponderante.

I primi anni Novanta sono gli anni d’oro di Anish Kapoor. E’ il ragazzo prodigio dell’arte britannica prima che arrivassero i YBA, i Young British Artists capitanati da Damien Hirst. Kapoor vince nel 1991 il prestigioso Turner Prize della Tate Gallery, l’anno prima,  1990, si aggiudica il premio 2000 alla Biennale di Venezia per artisti sotto i 35 anni, anche se ne aveva 36, con il padiglione della Gran Bretagna; e poi  appunto l’invito a Documenta 9, la mostra che si tiene ogni cinque anni e che a quel tempo era per un artista una vera e propria consacrazione. E’ come per un ciclista vincere Tour de France, Giro d’Italia e la Parigi Roubaix. Non sorprende quindi che un artista travolto da un tale tsunami di visibilità e successo possa avere il sospetto di essere diventato il padre eterno.

I problemi per Kapoor vengono quando il sospetto diventa certezza. Entrato negli anni 2000, il desiderio di onnipotenza lo porta a voler essere tutto e tutti. Ci riesce con successo nel 2006 a Chicago. con la sua nuvola “Cloud Gate”, soprannominata “il fagiolo”, nel Millenium Park. Una gigantesca goccia di mercurio che riflette lo skyline della città ipnotizzando i milioni di turisti che si selfizzano sotto e accanto alla scultura. Fallisce miseramente nella sua città, Londra, nel 2012, in occasione delle Olimpiadi, dove gli viene la fotta di sfidare le archistar del momento, tipo Koolhaas o Gehry. Il risultato è la torre Arcelor Mittal Orbit dove, come in una babele venuta male, la forma non è una lingua o un linguaggio comprensibile ma un grammelot, un obbrobrio che sembra un ripetitore satellitare, un ottovolante alto 114 metri e mezzo:  la Tour Eiffel, progettata e fatta senza l’uso dei computer, dei calcoli digitali e più che altro senza aver voluto essere un opera d’arte, è alta 330 metri. Non potendo vantarsi di molto, le autorità cittadine la presentarono come la scultura più alta del Regno Unito, come se io mi vantassi di essere il più alto di casa mia.
E’ quindi un sollievo vedere che la mostra di Firenze tiene mirabilmente sotto controllo l’aspetto patologicamente megalomane dell’artista partendo da opere dei primi anni ’80, dove Kapoor si portava dietro la leggerezza allegra dei pigmenti e delle spezie colorate  dei mercati indiani trasformandoli in forme naturali e surreali al tempo stesso. Mentre il nulla dotato di spazio di Sant’Agostino, ovvero il vuoto, viene rivisitato nel cortile centrale del palazzo con la stanza “Void Pavillion VII” che riporta la magia della discesa nel limbo di Documenta ma senza i rischi di fracassarsi una gamba. All’interno si trovano spazi rettangolari, finestre buie, di un nero che più nero non si può, avendo Kapoor brevettato il suo colore Vantablack, come Yves Klein negli anni ’60  brevettò il suo Blue Klein. Anche la più priapica barocca e purulenta delle opere funziona bene nelle sale del palazzo. Il titolo “Svayambhu” è una parola sanscrita che significa autodeterminazione o in parole più povere autosufficienza. Che è la perfetta descrizione e sintesi di quello che il precoce geniale talento di Anish Kapoor è diventato negli anni… una monumentale lenta ma inarrestabile continua masturbazione in attesa di una eternamente adolescenziale quanto utopica e inarrivabile penetrazione.

Di più su questi argomenti: