Fotografia
È morto Giovanni Chiaramonte, il grande fotografo che unì il linguaggio dell'immagine con la teologia
La sua è una fotografia che prova a confrontarsi con i giganti del pensiero antico e contemporaneo. Ora vede tutto e non ha più bisogno di fotografare
È morto Giovanni Chiaramonte, fotografo, curatore, editore, saggista, docente, primo fotografo a essere ammesso all’Accademia nazionale di San Luca. Nato a Varese da genitori di Gela, nei propri biografici contenuti nei numerosi libri si leggeva: “La sua opera si genera nell’estetica teologica di Romano Guardini, Hans Urs Von Balthasar e in quella della Chiesa d’oriente incontrata in Pavel Evdokimov, Olivier Clément, Andreij Tarkovsky ed ha come tema principale il rapporto tra luogo e destino della civiltà occidentale, nel segno dell’infinito che si apre nel tempo istantaneo proprio della fotografia”. Bastino queste righe per intuire quanto il suo percorso — o l’avventura, come diceva lui — fosse fuori dai sentieri tracciati della fotografia italiana e internazionale. La sua è una fotografia che prova a confrontarsi con i giganti del pensiero antico e contemporaneo. È il tentativo di far dialogare, se non mettere in competizione, il linguaggio dell’immagine con quello della filosofia e della teologia.
Le due persone che hanno segnato di più la sua vita sono state don Luigi Giussani, il fondatore di Cl, e Luigi Ghirri, del quale fu chiamato a pronunciare l’elogio funebre. Dal sacerdote brianzolo prese la convinzione che la fede dovesse dar forma alla vita e dunque anche all’arte. Del fotografo di Scandiano fu amico e sodale e i due fondarono nel 1977 la prima casa editrice italiana specializzata in fotografia: la Punto e Virgola. Fu una vicenda breve, ma seminale. Chiaramonte fondò poi le collane di fotografia di Federico Motta Editore e delle Edizioni della Meridiana di Firenze. Fu lui a convincere il figlio di Tarkovsky a pubblicare le polaroid del genio del cinema russo: la piccola edizione edita da Itaca/Ultreya è oggi pubblicata da Thames & Hudson. Nel 1984 è uno degli artisti radunati da Ghirri per “Viaggio in Italia”, che diventerà il manifesto del nuovo paesaggio italiano. Sono anni in cui non è facile per un artista come Chiaramonte guadagnarsi da vivere. La fotografia d’autore è poco capita, la sua marcata identità cattolica non piace alla gente che piace e il suo carattere poco incline ai compromessi non aiuta. Questo non gli impedisce di creare una serie di opere memorabili: “Westwards” (1997), “Cerchi della città di mezzo” (2000), “Dolce è la luce” (2003), “In Berlin” (2009), “Nascosto in prospettiva” (2009), “L’altro-Nei volti e nei luoghi” (2010). L’ultimo libro, sintesi potente del suo lavoro, è “Realismo Infinito” (2022), curato da Corrado Benigni.
La sua ricerca umana e spirituale gli fa sentire vicino Minor White e il suo modo di concepire le immagini come strumenti di meditazione e conoscenza dell’essenza delle cose. Sceglie come linguaggio quello del colore, affascinato dai maestri del cinema che, in anticipo sui fotografi, ne intuiscono le potenzialità poetiche. Tra Antonioni e Tarkovsky sceglie il secondo. E dopo un periodo in cui le sue immagini erano intrise di una nota di rosso, ma col tempo il dramma si scioglie e inizia a stampare le proprie opere con una dominante gialla, rifacendosi alla tradizione orientale delle icone a fondo oro.
In un intervista al Foglio diceva: “La Bibbia dice che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. Il che significa che l’eterno, l’infinito, ha scelto di creare me come immagine. Anche il mondo, la creazione, presentandosi a noi come dato di realtà, suggerisce che l’esistenza di un ‘datore’. Io posso comprendere che cosa sono nel momento in cui prendo coscienza di questa mia misteriosa somiglianza. A me che sono fotografo, produttore di immagini, è dato il compito di svelare così il destino dell’uomo e del mondo”. Si è spento ieri a Milano. Ora vede tutto e non ha più bisogno di fotografare.