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Orrori di guerre e miseria: in mostra gli scatti di McCullin
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma il racconto, attraverso 250 immagini, della carriera del fotografo iniziata a Londra a metà degli anni Cinquanta e proseguito in tutto il mondo: “Ho sempre cercato la sincerità”
Le immagini che arrivano da Israele e da Gaza impressionano Don McCullin. Eppure, considerato uno dei più grandi fotografi di guerra, il maestro inglese ha passato la vita a ritrarre scene di violenza, miseria, povertà. E’ quanto testimonia l’ultima sua grande retrospettiva allestita al Palazzo delle Esposizioni, a Roma, fino al 28 gennaio, insieme alla mostra di foto dell’ucraino Boris Michajlov. Una mostra sontuosa, che attraverso 250 scatti racconta in sei sezioni le varie fasi di una carriera iniziata quasi per caso a Londra a metà degli anni Cinquanta e continuata per vie traverse in tutto il mondo. Che parte ha avuto la vocazione e che parte ha avuto il caso nella scelta del mestiere della sua vita? “Non ho mai voluto essere un fotografo. Penso che la fotografia mi abbia scoperto per caso” risponde Sir McCullin, che circondato da moglie e figli ha festeggiato il suo 88esimo compleanno il giorno dell’inaugurazione della mostra e anni fa è stato insignito del titolo di baronetto. “Oggi vengo considerato un artista, anche se io mi sono considerato sempre e solo un fotografo. Un fotografo è un tipo che vive di scoperte. Io ho imparato a fare fotografie da solo, a stamparle da solo. Ogni creativo in fondo lavora da solo. Perciò mi considero una combinazione di caso e volontà, ma ero determinato ad avere successo. Anche se sono profondamente deluso dal mio lavoro, perché volevo solo testimoniare contro la guerra, e oggi vedo la situazione tragica che si è creata in Israele”.
Oggi grazie ai fotoreporter scopriamo la violenza senza fine, i massacri indicibili, l’eccidio di innocenti. Ma sessant’anni fa, Don McCullin fu tra i primi a indulgere senza filtri sull’orrore della guerra e della miseria, fotografando i cadaveri ancora caldi di morti ammazzati della guerra greco-turca a Cipro, gli ostaggi della guerra civile in Congo, tra fazioni filosovietiche e infiltrati della Cia, i moribondi londinesi, i senzatetto con disturbi mentali che dormivano all’addiaccio in Liverpool Street e i miserabili di Bradford, afflitti dalla deindustrializzazione, come Miss Wade, poggiata con le braccia conserte sul muro scrostato del suo alloggio miserrimo, o la ragazza madre in un lettino accanto a quello dei tre marmocchi, che sembra usciti da un romanzo di Dickens. “L’umanità sa come soffrire e la sofferenza è qualcosa di inestirpabile. Non c’è bisogno di andare in guerra per capirlo e raccontarlo. Non so se sono stato un precursore. Durante la guerra ero bambino, e quando la guerra è finita, vedendo le foto dei campi di concentramento nazisti, sono rimasto colpito dalle immagini dei cadaveri ammassati l’uno sull’altro a Dachau, e dai corpi scheletrici dei sopravvissuti a Bergen Belsen. Mi sono chiesto com’è successo? Sto guardando davvero? Avevo quindici anni, ero orfano di padre, e ho giurato a me stesso che sarei andato a mostrare ai lettori del Sunday Times le immagini tremende di come si viveva alla periferia della ricca Inghilterra”.
E’ così che il figlio di un povero operaio asmatico che viveva con moglie e figli in un seminterrato di Finsbury Park, inizia a scattare le foto di una banda di amici teppisti del suo quartiere, i “Guvnors”, che a guardarli oggi sembrano dei fichetti, coi loro blazer in tweed e il cravattino annodato. Dopo i primi riconoscimenti, nel 1961 parte a sue spese alla volta di Berlino, per fotografare la costruzione del Muro, altra sezione mirabile della mostra romana. “Come fotografo non ho mai voluto trasmettere un messaggio, esprimere un giudizio”, ricorda oggi senza emozione. “Ho sempre mantenuto un controllo delle cose che vivevo, un riserbo nel riprendere un senzatetto, un soldato giustiziato davanti ai miei occhi. Una volta ritornato a Londra, ho capito che il mondo non era poi così cambiato rispetto ai teatri di guerra. Perciò l’unica gioia che ho avuto nella mia vita di fotografo è stata quella di ritrarre i paesaggi e i siti archeologici romani in Turchia e in Nord Africa”.
Dopo le foto di guerra in Vietnam, in Cambogia, in Irlanda del Nord, le foto in Scozia e nei sobborghi londinesi, la mostra romana espone i paesaggi del Somerset: lunghe distese verdi immerse in un grigiore plumbeo, cieli neri, corsi d’acqua dai riflessi minacciosi. Significa che in tarda età, stanco di miserie e violenza, ha voluto rinnegare il suo passato o sperimentare una sorta distacco per trovare la tranquillità? “Le foto di paesaggio sono venute per caso e sono diventate una terapia. In campagna, passo intere giornate per cercare di cogliere il cambiamento della luce. Una volta famoso, dovevo rischiare la vita, ma non ho mai voluto barattare un’immagine per la morte di qualcun altro. Adesso, arrivato alla mia età, cerco di lottare per sopravvivere a me stesso. Ma se mi chiede come vorrei essere ricordato, le rispondo come uno che ha sempre lavorato duramente, e ha cercato soltanto di essere sincero”.