15 ottobre 1935: Stephen Haggard interpreta "Black Eye", del drammaturgo James Bridie, allo Shaftesbury Theatre (Sasha/Hulton Archive/Getty Images) 

Il guaio degli scrittori che si fanno complici dei lettori

Marco Archetti

Il rischio che la letteratura contemporanea diventi comfort food. Quanto manca quella brutta, sporca e cattiva. Cioè la vera letteratura

Perché la letteratura contemporanea ci lascia in pace? Perché, nella maggior parte dei casi, non ci scaraventa giù dalla sedia? Perché non ci fa un occhio nero? Perché non passa col rosso? Perché rinuncia ad affondare il colpo? Perché fa finta di non vedere? Perché vuole sempre vincere? Perché si ostina a non voler avere torto?

  
Tutte domande che eccedono lo stato dell’arte, si dirà, oziosi refoli di pessimismo che registrano una tendenza sempre esistita, col peccato, qui, di drammatizzarla in forma interrogativa – basta un punto di domanda ed ecco il dilemma, fai rotolare un po’ il dilemma ed è servita la tragedia. Diciamocelo: anche nel 1932, per un “Viaggio al Termine delle Notte” uscivano dieci “Avanti e Indietro tra il Cassetto dei calzini e la credenza”; oggi il rapporto è uno a mille per evidenti ragioni di evoluzione del mercato, ma già Baudelaire si lagnava del fatto che la letteratura fosse finita – l’eterno ritorno del ritorno eterno?

  
Però, a guardar bene, è innegabile che qualcosa ci stia accadendo. Il che non riguarda solo gli sfornatori di libri-prodotto, ma anche gli scrittori che in teoria lo sarebbero, quelli che potrebbero ma non vogliono, che vorrebbero ma si sabotano. Il fatto è che lo scrittore non sta più seduto al proprio posto. Lo scrittore, mentre scrive, si alza. E si alza sempre più spesso. Dove va? Va a sedersi accanto al lettore, abiurando la distanza. Ma da lì – dal lato lettore, oltre la più sacrosanta e invalicabile linea Maginot del patto – lo scrittore non è più uno scrittore, e si è già trasformato in altro. Si è trasformato in un complice. In un garante di innocuità. In sentinella di sé stesso con l’alibi di un altro. “Non ti farò male,” sussurra all’orecchio dell’implume. “Sono qui per dirti che ce la farai,” flauta dolcissimo. “Poi sentirai che sollievo, te lo prometto”.

   
Vale la pena chiederselo: esiste il rischio che la letteratura contemporanea (fatte le debite, esigue eccezioni) diventi comfort food? Ultimamente sembra aver scelto cattive compagnie, tipo la sindrome di approvazione. Frequenta sempre meno i vizi capitali e corteggia con sospetta insistenza le virtù teologali. Ama i cani, i gatti, la sensibilità. Ama il riscatto, la catarsi, la rivincita. Rimescola santini e agisce sotto dettatura. Dalle sue pagine non esala più la vita viva, ossia il vivo afrore di carogna umana, di soglie indicibili, di sudore vano e maledetto, ma solo l’aroma dolciastro della mezzana in piena solidarietà. Perché tradisce sé stessa e gli Humbert Humbert, i Moses Herzog, i Richard Tull, infliggendoci tonnellate di brioscine paradiso? Leggendo certe nostre pagine si ha la sensazione di esanime e candita perfezione, e che tutto sia sempre al posto giusto. Pura armocromia della narrazione. Scorzette  di pensiero. “Il rispetto delle sensibilità”.

 

Dove sono finiti i romanzi brutti, sporchi e mal vestiti, veri e propri mostri di energia? Dove sono quelli in cui l’impeto vince sul cesello squisito e che ci sanno agguantare davvero per il bavero? Ben vengano gli scrittori che ancora cercano la forza della rappresentazione e non l’amabilità e l’autocollocamento – ovviamente sempre sullo Scranno dei Giusti e in punta di omelia, il culmine del soggetto che si fa Verbo. Perché questo assalto al Pulpito? Cormac McCarthy ce le cantava chiare: “Scrivere è dire qualcosa che nove persone su dieci non condivideranno”. Perché chiamiamo intellettuali i Grandi Ratificatori a mezzo narrativo? Il romanzo non è friendly e non è nemmeno terzo. È quarto e quinto, semmai, e da là, dall’unica posizione che gli è propria – una posizione inconcepibile – canta la propria irriducibilità, perennemente in fuga dalla stupidità di chi lo immiserisce a strumento per esprimere il sé dell’Autore anziché far erompere il demone dell’Altro (e di tutti gli altri esclusi i verosimili, fatti non fummo a viver da annoiati).


Il romanzo è un imperioso tiro mancino al mondo e mastica confessioni ignominiose perché ama le sole verità che contino qualcosa, quelle ribelli perfino a sé stesse. Nella botola delle verità complici di sé cadiamo ogni giorno, si chiama Instagram.


Il romanzo, intanto, è là che ci aspetta. Tornare irresponsabili. Fare letteratura.

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