Facce dispari
James Senese: “Non canto più d'amore in un mondo allo sballo”
Il nero napoletano torna con l'album "Stiamo cercando il mondo". "Il rap è una schifezza che non ci appartiene. Noi dobbiamo proseguire con la musica dei nostri antenati Coltrane e Merola"
Nessuna intervista a James Senese, neppure questa, è mai stata o potrà essere più gustosa e memorabile di quella, fallita, che Lello Arena provò a fargli nel film ‘No grazie, il caffè mi rende nervoso’, vestendo i panni dell’impacciato cronista Michele Giuffrida. Però, anche se di anni ne sono trascorsi (troppi) da quel 1982, il “nero napoletano” non ha perduto nulla della grinta di allora, che da ultimo lo ha riportato sul palcoscenico del Teatro Trianon Viviani questo sabato e domenica per presentare, accanto ai brani storici, quelli dell’ultimo album (il ventunesimo): ‘Stiamo cercando il mondo’. Ed è la stessa grinta con cui esprime giudizi a filtro zero sugli sviluppi della musica nostrana, giacché a più di qualcuno, come minacciò di fare con Arena/Giuffrida, scasserebbe “il sassofono in testa”. Settantotto anni compiuti il 6 gennaio, di cui più di sessanta passati a suonare, quando Senese parla si capisce che la sua prima lingua è quella del sax o del canto e le parole sono trasposizione delle note. Così come segue.
Nel brano che dà il titolo al disco lei afferma: “Non vogliamo vivere in un mondo che non c’è”. In quale mondo vorrebbe stare?
Il mondo s’è messo sottosopra e noi ci stiamo abituando ad accettare tutto. Ci siamo addormentati davanti a quel che sembra, finché direttamente non ci tocca, un film che si dipana tra i social e la televisione, senza capire che non riusciamo più a godere di una vera libertà. Ci adagiamo su quanto avviene, pensando che il mondo è inevitabilmente questo. Guerre, infamie, falsi miti.
Senza rimedio?
È complicato il rimedio, forse è impossibile. Ci vorrebbe una rivoluzione dei sentimenti, ma i sentimenti mi sembrano perduti. Perciò nelle mie canzoni non voglio più parlare d’amore. Con tutto quel che accade mi sembra superfluo. Non è più come prima.
Prima com’era?
Ogni cosa diventava una scoperta. La crescita ci affascinava come una esplorazione della vita. Non pensavamo di volere tutto subito né che per progredire bisognasse trasgredire. Nel mio mondo, quello della musica, certi valori erano condivisi e i sentimenti molto forti. Niente ci distraeva dai nostri sogni. A guardare indietro posso dire che io, Pino Daniele, Gragnaniello, Avitabile siamo stati o siamo quasi la stessa persona. La pensavamo allo stesso modo, e questo di adesso è proprio il mondo che non volevamo noi.
Non le piacciono i giovani musicisti?
Ma quali musicisti. Piuttosto dovrebbero andare a lavorare, prendere la cardarella (il secchiello in cui i manovali impastano la calce; ndr) e faticare. Cos’è il rap? È una schifezza che non ci appartiene. Noi dobbiamo proseguire con la musica dei nostri antenati. Io li chiamo così.
Chi sono gli antenati per lei, figlio “niro” di una napoletana e di un militare americano nella Seconda guerra mondiale?
Solamente qualche esempio: John Coltrane, Lester Young, Coleman Hawkins, ma anche Sergio Bruni, Mario Merola e Mario Trevi. Loro sì che hanno dettato legge.
Lei non si sente un maestro?
Ma a me non interessa esserlo. I maestri sono i nomi che le ho detto e quelli come loro che stanno dietro di noi. All’età mia li ascolto ancora. Ci sono canzoni di cinquant’anni fa che conosco a memoria, perché è la musica in cui sono nato e cresciuto. I giovani adesso non si volgono indietro o dimenticano tutto, non si affannano nella ricerca. Però tra cent’anni sono certo che resisterà Coltrane, mica loro.
Il consenso del pubblico smentisce spesso questo suo pessimismo.
È un bluff il pubblico di oggi. Per il novanta per cento non esiste, vuol solo vivere alla giornata e prendere quel che passa il convento, prenderlo tutto e subito. Per poi scordarselo.
Perciò lei canta che “siamo tutti un po’ sballati”.
E peggio ancora i giovani, che già lo sono per natura: “sballati” per loro è la parola più generosa che riesco a trovare. E continueranno a sballarsi più degli altri perché il mondo che hanno visto è soltanto questo qua.
Quando incontrò il sassofono immaginava che l’avrebbe accompagnato fin qui?
Avevo dodici anni e lo sentii dai jukebox. La potenza di quel suono mi fece subito desiderare che fosse il mio strumento. L’ho adottato come una parte del mio corpo e della mia mente, mi porta a esprimere anche le cose che non riesco a verbalizzare. Il sax sono io.
Per non salutarci con troppo pessimismo, ricordiamo che il suo è mitigato dalla fede.
Meno male. E ci mancherebbe. Devi credere in Dio. Dio esiste, come esistono il Paradiso e l’Inferno. Vorrei che lui una volta ci apparisse, una volta sola, per rimetterci sull’attenti e distruggere il male che ci fa soffrire. Con le canzoni cerco di trasmettere questa fede, perlomeno di lasciarla intuire.
Quale brano andiamo ad ascoltare adesso, tra tutti quanti i suoi?
Due vecchi pezzi: ‘’O nonno mio’ dedicato a mio nonno Gaetano, ossia una parte del mio cuore che non ho visto più. Ai suoi funerali non volle i fiori perché non avrebbe potuto sentirne il profumo e non voleva farli morire come lui. E poi ‘Ecce Homo’: lo farei sentire a tutti dalla mattina alla sera, per ritrovare il sentimento perduto.