Lo studio
Biologia e cultura della paura, l'emozione più antica
Così l’amigdala ha giocato il suo ruolo nell’evoluzione dell’homo sapiens
Bocca secca e sudorazione aumentata, battito cardiaco e respiro accelerati, motilità intestinale e tensione muscolare, ecco i sintomi fisici della paura. Nessuno vorrebbe mai sperimentarla, ma se così fosse ci sarebbe un’infinità di motivi per desiderarla. Basti pensare a cosa significherebbe camminare in montagna senza che l’improvvisa vista di uno strapiombo causi spavento o, più semplicemente, preparare un esame senza il timore di non riuscire a superarlo. La paura può essere scatenata da un oggetto reale o innescata da un ricordo o da una fantasia ed è un’emozione così poco gradita che si può addirittura temere di provarla. Eppure, essendo un’emozione primaria – assieme a gioia, tristezza, rabbia, disgusto e sorpresa –, la si trova in tutte le culture, qualsiasi persona riesce a riconoscerla sul viso di qualsiasi altra ed è presente nei comportamenti, nelle azioni e nei vissuti umani perché possiede un importante radicamento neurobiologico. Infatti, è nelle profondità dei lobi temporali – la porzione di corteccia cerebrale immediatamente sopra le orecchie – che bisogna andare a cercare per scovare la struttura responsabile di tanto affanno: l’amigdala, dal latino amygdala, mandorla.
Nessuno vorrebbe mai sperimentarla, ma se così fosse ci sarebbe un’infinità di motivi per desiderarla. È un’emozione primaria
Di fronte alla paura si può reagire in diversi modi. Alcune specie tendono a immobilizzarsi, altre a scappare e altre ancora ad attaccare. Così, infatti, si comporterebbero rispettivamente un topo, una gazzella e una tigre. Per gli esseri umani invece, il modo di reagire in una situazione di pericolo è in gran parte determinato dall’ambiente sociale nel quale ci si è formati.
È così importante che gli umani condividono la presenza e la funzione dell’amigdala con creature filogeneticamente distanti, cioè i rettili
La possibilità di avere delle risposte alla paura efficaci è una necessità evolutiva talmente importante per gli esseri viventi, che gli umani condividono la presenza e la funzione dell’amigdala persino con delle creature filogeneticamente piuttosto distanti, cioè con i rettili. Per questo si trova nelle profondità del cervello, perché è una struttura piuttosto antica dal punto di vista evolutivo. Forse è questo il motivo per cui una paura che non dà tregua viene definita profonda, perché ha origini che affondano nelle esperienze spaventanti che vengono tramandate da milioni di anni, fin da quando avevamo le squame. Per fortuna però, il cervello degli esseri umani evolvendosi è aumentato di volume, ha guadagnato strati, cioè aree cerebrali con il compito di mediare comportamenti più complessi come quelli per la collaborazione e la formazione dei legami sociali, presenti nella maggior parte dei mammiferi e assenti invece dalla vita dei rettili. Successivamente si sono aggiunte anche quelle strutture cerebrali che hanno fatto emergere il vasto panorama dei valori personali, le cosiddette funzioni cognitive di alto livello. Ed è proprio la connessione dell’amigdala con queste ultime aree – identificabili nella corteccia prefrontale, la porzione di cervello che si trova all’incirca dietro la fronte e che nei sapiens è particolarmente sviluppata – a rendere possibile la regolazione del vissuto emotivo. Cioè a non esplodere dalla rabbia se per sbaglio cade una posata mentre si sta mangiando o a non rimanere paralizzati dalla paura se si vede sbucare improvvisamente una persona da dietro un angolo.
Ciò che sappiamo è che l’amigdala riceve informazioni principalmente attraverso due vie: da una profonda e antica struttura sottocorticale, il talamo, il crocevia di qualsiasi informazioni in entrata nel cervello, che ha lo scopo di sollecitare una reazione emotiva efficace e intensa, e dalla corteccia prefrontale che al contrario ha l’obiettivo di raffreddare la risposta emotiva mettendola in contatto con ciò che sta realmente accadendo.
Nel 2018 un team di ricercatori della University of Pennsylvania, del McGovern Institute for Brain Research e del Massachusetts Institute of Technology ha eseguito uno studio di risonanza magnetica funzionale su un gruppo di settantanove minori tra i quattro e i sette anni. Ciò che è emerso dalle scansioni cerebrali è che l’esposizione a eventi di vita stressanti come la morte di un familiare, la presenza di conflitti genitoriali o l’aver subito un grave incidente erano associati a un indebolimento della connessione tra la corteccia prefrontale e l’amigdala. A sua volta associata alla presenza di comportamenti aggressivi e a problemi di attenzione e iperattività. Tutto ciò che un genitore desidererebbe per un figlio insomma.
Un ulteriore aspetto interessante di questo collegamento sta nel fatto che è più facile per l’amigdala sollecitare la corteccia prefrontale che non il contrario. Come dire, è più facile iniziare ad avere paura che smettere di provarla. E anche questo fenomeno può essere letto attraverso la cornice evoluzionistica: meglio essere vivi e spaventati che morti e sereni. Il deposito delle memorie emotive avviene in maniera frammentata nel cervello, poiché ogni specifica area, ad esempio quelle che si occupano di elaborare le informazioni visive, uditive o tattili si occupano anche di immagazzinare i relativi ricordi, ciascuno depositato nella corteccia sensoriale di appartenenza. Questo significa che il ricordo di paura legato alla prima volta in cui si è udito un suono spaventante si trova in una diversa parte di cervello rispetto a quello della prima volta in cui si è visto qualcosa che ci ha impaurito.
Inoltre, le esperienze traumatiche possono essere talmente forti da lasciare delle cicatrici nelle strutture cerebrali.
In uno studio del 2014 di cui Annemieke M. Apergis-Schoute è la principale autrice, alcuni partecipanti erano sottoposti a delle sessioni di risonanza magnetica funzionale durante le quali venivano condizionati ad associare uno stimolo doloroso – una scarica elettrica – ad uno uditivo. Ciò che è emerso è che anche quando veniva insegnato loro a non associare più i due stimoli, cioè a non aspettarsi più di provare dolore quando udivano il suono, quindi a non temerlo più, la loro corteccia uditiva – la parte di cervello in cui vengono elaborati i suoni – continuava ad attivarsi similmente a quello che faceva quando suono e dolore erano appaiati. Questo suggerisce – concludono gli autori – che l’apprendimento nei confronti di un evento minaccioso può lasciare un segno persistente nelle cortecce sensoriali, che rimane anche quando, magari attraverso un percorso clinico, si è riusciti ad ottenere un ridimensionamento delle risposte di paura agli stimoli spaventanti.
La buona notizia però è che sebbene le cicatrici rimangano, è possibile, attribuendo un nuovo significato a ciò che prima ci metteva in una situazione di malessere, non rispondere più in maniera eccessiva di fronte agli stimoli che creano disagio; a non lasciarsi più trasportare da stati d’animo negativi.
Le esperienze traumatiche possono essere tali da lasciare delle cicatrici nelle strutture cerebrali. Ma c’è la possibilità della “fear extinction”
Tutto questo passa attraverso la cosiddetta fear extinction (estinzione della paura): un processo attraverso il quale le risposte di paura di fronte ad uno stimolo avversivo vengono inibite, meccanismo che può rivelarsi piuttosto importante per coloro che vivono condizioni fobiche, ansiose o post traumatiche. Si tratterebbe di un processo attivo, di un vero e proprio apprendimento attraverso il quale lo stimolo ansiogeno viene ridefinito con una valenza neutra, venendo, per così dire, addomesticato. Però, l’adozione della nuova forma interpretativa continua a coesistere con la vecchia memoria che, in condizioni di stress, è suscettibile di prendere nuovamente il sopravvento. Del resto, se la vita fosse giusta non esisterebbero nemmeno le zanzare, la microplastica o le pubblicità moleste.
In un lungo articolo apparso l’anno scorso, Joseph E. LeDoux, autorevole neuroscienziato americano che ha dedicato l’intera carriera accademica allo studio delle emozioni e particolarmente allo studio della paura, cerca di fare chiarezza sull’origine e sul funzionamento di questa emozione. Per questo ricercatore, infatti, con il termine “paura” si definirebbe uno stato soggettivo, una narrazione personale culturalmente mediata.
Una cosa è rilevare il pericolo, un’altra è la possibilità di avere paura, che negli esseri umani scaturisce da una rete di significati
Perciò, quello che accomunerebbe specie tra loro lontanissime non sarebbe la possibilità di provare paura, ma quella di rilevare il pericolo. L’amigdala, dunque, non sarebbe altro che il circuito neurobiologico che permette di percepirlo. E la paura, invece, rappresenterebbe una conseguenza di questa attivazione, ciò che scaturisce dalla rete di significati che si possiede e che negli esseri umani, dal punto di vista neurobiologico si trova, appunto, nella corteccia prefrontale. Quindi, conclude, la semplice attivazione dei circuiti di sopravvivenza non può definire il contenuto cosciente di ciò che proviamo. E’ la parte più evoluta del nostro cervello a farlo, poiché un’importante caratteristica degli esseri umani è quella di dover mantenere un senso di unità mentale attraverso interpretazioni personali di fenomeni che sono controllati dal cervello in maniera non cosciente, come la tachicardia o il respiro affannoso.
Sarà a causa della loro incredibile varietà (delle interpretazioni personali) che negli esseri umani la paura sembra essere un’emozione tanto diffusa. D’altronde, non c’è da stupirsi se si pensa al tipo di informazione presente in alcuni canali televisivi e in alcune piattaforme social. Probabilmente perché è ben noto che la paura non è qualcosa di difficile da stimolare. Invece, il motivo per cui esiste un pubblico disposto ad esporsi a questo tipo di informazione è tutta un’altra questione. Quello che però sembra che non venga mai preso in considerazione è ciò che questo tipo di esposizione causa; come minimo sfiducia e avvilimento.
Ma al di là di questa nota, se per la maggior parte di noi venire attaccati da un leone o da un coccodrillo non rappresenta più un pericolo da cui guardarsi, lo sono invece l’instabilità politica, l’insicurezza lavorativa, le conseguenze del cambiamento climatico. Come dire, ogni epoca ha il suo motivo d’affanno. Chissà anche che quell’antica esortazione che ci sprona a conoscere noi stessi non faccia la sua parte, e che la paura non sia un componente necessario, qualcosa come una porta da poter imboccare, ma per giungere dove è difficile trovare qualcuno che sappia dirlo.