il racconto
Il museo del giocattolo da cui si esce lievi e pensosi sul senso del nostro vivere
Nell'entroterra marchigiano c'è un luogo dove è possibile tornare bambini e rivivere la leggerezza fanciullesca. Tra modellismo e giocattoli d'epoca
Ho il privilegio di vivere nell’entroterra marchigiano, al confine tra le province di Pesaro e Ancona. Girare tra le colline che dalla valle del Cesano scavallano verso la valle del Misa è un’esperienza sublime, specialmente in questo scampolo di mitezza estiva a novembre. Loretello, Palazzo e Piticchio, i castelli dell’arceviese, fanno a gara a chi riflette la luce più bella, con sullo sfondo, da una parte, i monti e dall’altra il mare. Intorno il marrone dei campi, i filari che ingialliscono, i casolari circondati dagli alberi. Ce n’è abbastanza per rimanere incantati e non volersene andare mai. Ma a tutto questo vorrei aggiungere un’ulteriore piccola meraviglia di queste terre che fino a domenica scorsa mi era del tutto sconosciuta: un museo del giocattolo che è soprattutto un luogo per ritrovare la magia del gioco e della nostra infanzia. Si trova a Piticchio di Arcevia e si chiama “Museogiocando”: una fantastica collezione di più di cinquemila giocattoli di ogni tipo e di ogni epoca, soprattutto trenini e circa tremilacinquecento modellini di automobile, messa insieme da due straordinari coniugi quasi ottantenni per il solo gusto di trasmettere ai visitatori un po’ della loro vivacità, della loro intelligenza e della loro passione.
In sette grandi plastici ferroviari di varie epoche, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, si possono ammirare, perfettamente funzionanti, autentici trenini che entrano e escono dalle gallerie di un paesaggio incantato; si può ascoltare il rumore degli scambi e quello dei freni in stazioni mirabilmente ricostruite, incluso il trambusto della città. Roba da far strabuzzare gli occhi non soltanto ai bambini. E come se non bastasse c’è il signor Giovanni, il creatore del museo, che di ogni giocattolo racconta magistralmente la storia, gli aneddoti, facendoti sentire vicina anche la storia più grande nella quale i suoi giocattoli sono nati. Ascoltando assorto e felice quelle storie, mio nipote di cinque anni alla fine ha espresso il desiderio di poter lavorare da grande in un posto simile. Noi adulti abbiamo avuto invece la sensazione di aver toccato miracolosamente con mano quella “tendenza metafisica a vedere l’anima del giocattolo” che Baudelaire considerava il più grande privilegio dell’innocenza dei bambini, ma che qualche volta può toccare pure i grandi. Basta soltanto che sappiano ancora giocare. Proprio così. Da “Museogiocando” si esce lievi e pensosi sul senso del nostro vivere; si viene esortati a uno stile di vita da amatori, che poi non vuol dire altro se non a fare bene, con serietà e passione ciò che facciamo. Del resto niente è più serio del gioco. È giocando che misteriosamente prendono forma i primi archetipi della nostra vita, le cifre che segneranno per sempre il nostro carattere, a cominciare dalla più preziosa di tutte: la leggerezza. Soltanto gli amatori la conoscono a pieno, poiché in fondo soltanto loro sanno guardare il mondo con lo stupore infantile che provavamo da bambini davanti ai nostri giocattoli. Con leggerezza si può essere ambiziosi, ma mai presuntuosi o invidiosi; si può provare fastidio per le umane debolezze, ma con compassione, mai indossando i panni del giudice; si guardano insomma più le fortune che ci sono capitate che i nostri meriti. Un po’ come i giocattoli, essa ci aiuta a capire che tutto ciò che abbiamo di più bello ci è stato donato, a maggior ragione ciò a cui ci siamo dedicati con più impegno. Condividerlo, come fanno il signor Giovanni e sua moglie, significa offrire a ogni visitatore una possibilità imprevista, la speranza che la parte più profonda, più fragile e più bella del nostro io, l’infanzia che ci rende davvero tutti uguali, è ancora lì, magari nascosta sotto qualche inevitabile crosta, ma sempre lì. E basta un giocattolo per ridarle vita e vigore.
Universalismo individualistico